«In Africa c’è il mio sogno di bambina»

Suor Franca Bottin è da 12 anni missionaria in Monzambico. Nessuna paura, solo il desiderio di finire lì la sua vita
Di Paola Malagoli

CORREZZOLA. Era una bambina di otto anni quando l’Africa ha cominciato a insinuarsi nei suoi pensieri. I colori e i profumi di quel continente, completamente sconosciuto alla piccola Franca Bottin, sono entrati con prepotenza nella sua mente. Per non uscirne mai più. Ora suor Franca trascorre gran parte della sua vita a Pemba, nella missione delle suore Pastorelle, tra quei colori e quei profumi che sognava da bambina, immersa in quella povertà che è diventata consapevolezza negli anni successivi.

Ha 67 anni, suor Franca, ma ha nell’animo ancora l’energia della gioventù. Non ci si stancherebbe mai di parlare con lei, è come un fiume in piena nel raccontare la sua vita e le sue scelte, ma anche le sue paure e le sue incertezze. Quanto successo nel settembre scorso alle tre religiose saveriane, massacrate in Burundi, pare per ordine dei Servizi segreti locali, non la spaventa affatto. In Africa è la sua vita ora, e in Africa vuole finire i suoi giorni. Così come le tre suore uccise, che sono state sepolte in quella terra. In quell’Africa dove l’ebola sta decimando la popolazione. In quell’Africa dove, a meno di un chilometro di distanza dalla spiaggia dove stanno sorgendo ville e alberghi da sogno, la popolazione muore ogni giorno di fame. In quell’Africa dove ha realizzato il suo sogno di bambina.

«Sono nata e cresciuta a Concadalbero in una famiglia patriarcale e numerosa» racconta suor Franca «In una famiglia profondamente religiosa, una fede vissuta in modo tradizionale, che mi ha trasmesso valori cristiani molto forti, accentuati dall’esperienza in parrocchia. Fin da bambina sono stata attirata dall’Africa, da quel mondo nero. Mia mamma diceva che ero matta, ma io le rispondevo, quasi come provocazione che avrei sposato un africano e sarei tornata da lei con una schiera di bambini di colore, i miei figli. A 16-17 anni ho cominciato a sentire dentro di me la vocazione. La prima reazione è stata di ribellione verso quei segnali. Vedevo le suore come persone angeliche, troppo perfette per me, che amavo girare in Lambretta. Per me così normale, con un ragazzo che mi voleva bene e con tutte le fragilità dell’età giovanile. Per questo piangevo spesso, mi sentivo un vuoto allo stomaco. Mi chiedevo: ma perché proprio io? Ma nello stesso tempo mi rendevo conto che la vita poteva avere un senso, poteva essere piena solo attraverso quella scelta».

Dopo l’Africa e la vocazione arriva un altro segnale, quello che la porta a scegliere le suore Pastorelle. «Un giorno era in giro con la Lambretta 150, che guidavo senza patente» continua suor Franca «da Pegolotte ero diretta a Monselice e la moto si è fermata proprio davanti al convento delle Pastorelle. Sono entrata e ho capito subito che era l’istituto per me, così vicino alla mia personalità, così aperto, così normale. Sono andata a Roma per conoscere più da vicino la congregazione, ci sono andata in treno. Volevo soprattutto capire se avevano missioni in Africa. Sono rimasta lì otto giorni: ho conosciuto suor Lucia Barbieri, che mi ha ispirato una fiducia immensa. Con il suo sorriso mi riempiva la giornata».

A 21 anni la scelta. «Era il 25 gennaio 1969. Con la Opel di mio cognato Giuseppe, accompagnata da mia sorella Vittorina e da un’amica, sono partita per Roma. Era una mattinata di nebbia fitta. Prima di varcare l’ingresso dell’istituto religioso, ad Albano Laziale, mio cognato ha fermato la macchina davanti al cancello sollecitandomi a ripensare ancora una volta al passo che stavo facendo, alle difficoltà e alle conseguenze della mia scelta. L’ho sollecitato a proseguire, senza alcun dubbio. E il 3 settembre del 1971 ho preso i voti. Sono stata in Emilia Romagna e in Lombardia, sempre a contatto con i giovani tra scuole materne, catechesi e centri estivi. Ma restava l’Africa nel mio cuore, quell’Africa che sembrava un miraggio. Anche perchè missioni in quel continente la Congregazione non ne aveva. A Modena sono stata 10 anni, un’esperienza molto bella a livello ecclesiale. Proprio all’epoca mi venne offerta la possibilità di andare in missione in Australia. “Se si tratta di andare tra gli aborigeni vado, ma se la destinazione è Melbourne no”, risposi. E fu no. Altri nove anni li ho passati a Mantova insegnando nel quartiere “Lunetta”, un quartiere popolare difficile tra ragazzini che già rubavano, malati di mente e tossicodipendenti. Lì vivevo in un piccolo appartamento andando a scuola in bicicletta. Un po’ di Africa l’ho iniziata a vivere proprio lì».

Poi è arrivata la vera Africa, il sogno realizzato. Nel 2000, infatti, la Congregazione ha iniziato la sua esperienza a Pemba e il 26 novembre 2002 suor Franca è partita per il Monzambico. «In questo primo viaggio», prosegue nel suo racconto «mi ha accompagnato don Alfredo Rocca, parroco di Mantova. Inizialmente ho vissuto in una piccola casa in centro messa a disposizione dal vescovo. Ma quando ho visto i bairros, le capanne, l’estrema povertà ho capito che ero dove il Signore mi aveva portato. Sono lì ormai da 12 anni, nella mia Africa. Bisogna stare bene nella propria pelle, sentirsi bene con se stessi per capire, per entrare in sintonia con culture così diverse, per accettare questi popoli per quello che sono. Il tempo lì è nelle tue mani, non è ritmato dall’orologio, ma dal percorso del sole».

Difficoltà? «La lingua, innanzitutto. Non tanto il portoghese, ma le lingue locali legate alla loro cultura come il Macua e il Maconde, che si identificano con le loro maggiori etnie. La missione di Pemba è nella provincia di Cabo Delgado, il cui territorio coincide con quello della Diocesi che ha proprio a Pemba la sede vescovile. Un territorio esteso quanto la Puglia, al confine con la Tanzania. Dove i giacimenti di petrolio e gas la fanno da padroni».

Paure? «I serpenti. Più che una paura era quasi un’ossessione. Lì i serpenti fanno parte dell’ambiente, bisogna imparare a conviverci. Rischi? No, non li percepisco. Dopo la fine della guerra civile, nel 1992, la persecuzione è finita. Prima ci sono state anche religione finite in carcere. Il popolo del Monzambico ha Dio nel Dna, togliere loro la religione sarebbe come privarli di una parte fondamentale di loro stessi».

L’Africa ultimamente è anche ebola. «Più che l’ebola qui c’è Aids, che colpisce oltre il 50 per cento della popolazione. Poi ci sono il colera e la malaria, che rappresenta per noi forse il rischio maggiore dal punto di vista sanitario».

Un rammarico? «Uno solo, non essere stata presente quando è morta mia mamma, una donna molto dolce».

Un desiderio? «Che il Signore mi dia il dono di morire in Africa. Dove voglio essere seppellita». Come le tre suore uccise in Burundi.

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