La chiamavano Dandula Una nobile trasgressiva combatte per le donne

di Paolo Coltro Ma che simpatica! E mica solo per il nome, un’offesa trasformata in malizia: Dandula, la chiamavano, e il senso i maschietti lo coglievano al volo. Per chi non ci arrivava c’era un...
Di Paolo Coltro

di Paolo Coltro

Ma che simpatica! E mica solo per il nome, un’offesa trasformata in malizia: Dandula, la chiamavano, e il senso i maschietti lo coglievano al volo. Per chi non ci arrivava c’era un epigramma di Dalmistro, il maestro di Foscolo, che seppur in latino era esplicito assai: “Dandula perché la dà”. Ma Elisabetta Maffetti, nata a Venezia da lombi bergamaschi arrivati in città, arricchiti e diventati nobili per soldo, era Dandula perché aveva sposato un Dandolo, cognome che per gli uomini, come mai?, guai a prestarsi a doppi sensi. I Dandolo avevano un pedigree dogale, nobiltà antica e illustre, ma quell'Antonio suo marito ne era uno scialbo epigono. Più vecchio di lei di trent'anni, la sposò nel 1767 per evidenti motivi d’interesse: portava una dote cospicua e in prospettiva un patrimonio. Elisabetta aveva quindici anni, e nessuno le chiese nulla. Un marito imposto, come succedeva spesso. Solo che la sposa-bambina si oppone, si ribella, non vuole, scoperchia l’ipocrisia generalizzata per cui questi matrimoni mantengono la facciata e i coniugi, ognun per sé, fanno quello che vogliono. Venezia la tenera, prima di affibbiarle lo sfrontato Dandula, forse aveva colto questo dramma dell’adolescenza, e l’aveva battezzata la Dandoletta.

Il libro che porta alla luce la sua storia non poteva però che intitolarsi “Dandula”. Ammetterete che fa audience, anche letteraria. L’ha scritto Paolo Cattelan, storico della musica che ha impiegato molti anni e molte soddisfazioni della sua vita a saper tutto di Mozart: un suo testo sul giovane compositore e Venezia ha anche vinto il premio Iglesias. E per quanto Cattelan sia un segugio di musicisti, opere, libretti e quant’altro la musica abbia suscitato, s’è fatto distrarre dalla Dandoletta. Distrarre gli uomini in effetti pare fosse la sua specialità, ma chi l’avrebbe detto, a duecent'anni di distanza?

Insomma il nostro storico indaga sulla visita dei Mozart, il padre Leopold e il quindicenne Wolfgang, a Venezia nel 1771 e si imbatte in quel cognome: Maffetti. Elisabetta incontra i Mozart perché frequenta gli ambienti della musica, ne favorisce gli autori, è, a diciannove anni, una mecenate di quel mondo. Forse perché ruota attorno al “Ridotto” di san Moisé, un casinò per nobili e non di cui è proprietario il marito. Al Ridotto si gioca, si conversa, si maligna e probabilmente si suona: ed Elisabetta, par di capire, è più spesso lì che a casa. La Dandoletta si dà da fare per Wolfgang, che assieme al padre cerca commissioni da tutte le parti: gliene procura una, per un’opera seria, "Solimano" che alla fine Mozart non comporrà mai, distratto da altri impegni (la farà Johannes Gottlieb Naumann, musicista di Dresda stanziale in quegli anni a Venezia). Elisabetta spunta così, nemmeno ventenne, nella storia della Venezia intellettuale. Tempo tre anni, si ritrova in tribunale.

La denuncia il marito, per adulterio. E gli Inquisitori di Stato, che controllano anche la nobiltà, scatenano su di lei gli informatori. Un po’ la conoscevano già, e per altri motivi. Elisabetta, dopo aver fatto sapere che si sent. e prigioniera del matrimonio, si comporta di conseguenza senza nascondersi. Società e molto probabilmente sesso: “Non teme di far apparire sulla testa del marito un bel paio di corna”, scrive Cattelan. D’altra parte la Dandoletta dice che è innamorata d’un altro, magari più consono a lei, ma anche scomodo. È Alvise Pisani, un nobile barnabotto, cioè povero, conosciuto come “litigante”. Vedremo perché Alvise è scomodo. Elisabetta, è evidente, ha la sua bella personalità: studia musica, è esuberante, ha frequentazioni con molti stranieri anche importanti, il che mette sul chi va là gli Inquisitori. Già un anno dopo il matrimonio la giovin signora Dandolo si fa talmente notare da diventare il soggetto di un sonetto anonimo. Dove si parla del suo “passo alla levriera”, del “petto alla ermafrodita, no la se mette el busto”, “i brassi tutti nudi, i occhi ben macati per uso di libidine”. E, tocco finale non senza significato “el sbeleto alla francese, el pensar tutto all'inglese, el sentar alla sultana una coscia sora l'altra”. Conclusione in rima: “Tutto il resto da p...”.

È anche possibile che Dandula fosse una libertina, ma mettendo l'accento più sulla radice “libertà” del termine che sul resto. Quel che di lei riferiscono gli informatori, in vista del processo, è devastante: quasi una pubblica meretrice, che dà scandalo sulle altane davanti al suo palazzo, che frequenta stranieri e veneziani pericolosi: come Alvise, appunto, che ha in animo con altri di metter su una “rivoluzione” dei barnabotti e incorre nella repressione statale. Ovvio che Elisabetta perda il processo: un processo raro, perché durante tutto il Settecento c’è soltanto un altro caso di nobildonna processata per adulterio. In realtà lo scopo del marito è quello di non perdere il controllo sulla dote: la sentenza condanna Elisabetta a stare in casa con il coniuge. Ma la sua battaglia sostanziale continua: vuole lo scioglimento del matrimonio, cioè l’annullamento che è di competenza ecclesiastica. Il Patriarca glielo nega, poi entra in campo Giandomenico Stratico , che è un nunzio apostolico un po’ speciale: amico e mentore di Casanova, amico degli amici di Elisabetta. È lui che nel 1781 annulla il matrimonio. È la vittoria al femminile di Dandula: non si sa se, uscita dalla casata, abbia perso quel nome malizioso. In realtà è la vittoria delle “donne capricciose”, come venivano definite quelle non accettavano supinamente le regole del tempo. Per raccontare Elisabetta, di cui vi diciamo solo che ebbe altri due mariti, che cercò di divorziare anche dal terzo, più giovane di lei di vent’anni, che fu filonapoleonica, che si ritirò nella villa di famiglia a Monigo di Treviso dove è sepolta, ecco, per raccontare Elisabetta Paolo Cattelan mette nelle pagine una Venezia viva e documentatissima, un quadro della società della Repubblica in fibrillante decadenza pieno di notizie e di particolari, come solo la precisione dello storico può fare. Per quanto riguarda Dandula, un lavoro difficile, perché questa “capricciosa” ha subìto una devastante damnatio memoriae: quasi niente su di lei, se non le maldicenze e gli atti del processo. Nemmeno un ritratto, un disegno, un medaglione: eppure era nobile sposata ad un nobile, e, ricordano di sfuggita, come fosse un’aggravante, “bellissima”.

Ma lo storico della musica, pur depistato dall’affascinante figura di Dandula, torna alla musica. Il sottotitolo del libro è “L'ultimo sorriso di Mozart”: c’entra con Dandula, ma non come pensate. Cattelan lo considera un piccolo scoop musicale e ve lo trovate alla fine del libro. Non va rivelato, va letto. Ma vi diamo degli indizi.... Nella sua ultimissima opera, la “Piccola cantata massonica”, Mozart introduce una melodia che non è sua, che è nata con un testo diverso. Ecco, in questa citazione aleggia l’anima di quella ragazza di diciannove anni conosciuta tanto tempo prima.

Ultima nota (non musicale): l’affascinante libro di Cattelan, progetto di ricerca finanziato dalla Regione Veneto, è edito da Marcianum Press, che vuol dire Patriarcato di Venezia. Nel risguardo di copertina, c’è la frase, papale papale, “si chiama Dandula perché la dà”. Un bell’esempio di laicità, Marcianum Press al passo con la storia ma anche con i tempi.

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