La donna tra Freud e Jung
Film eccessivamente didascalico, appesantisce dialoghi e ruoli
VENEZIA.
Nel 1902, nella clinica di Burg Holzl, vicino a Zurigo, arrivò una giovane donna, Sabine Spielrein, un'ebrea russa in preda a un'orribile isteria, per farsi curare da un giovane analista della neonata scuola freudiana, Carl Gustav Jung. La donna mostrava un'antica tendenza al masochismo sin da quando, bambina, si eccitava alle percosse del padre. Comincia così A Dangerous Method di David Cronenberg, che ricostruisce la vicenda del rapporto intenso tra Jung, Spielrein - che passò da paziente ad amante a collega - e Sigmund Freud. Da sempre attento alle perversioni della mente e alle sue fantasie, soprattutto in tema di superfetazioni mutanti dentro e fuori il corpo umano, Cronenberg si avvicina al padre di tutti gli antagonismi psicoanalitici attraverso la mente e il corpo di una donna. Per questo, e per la naturale propensione del regista canadese a occuparsi anche di medicina e di identità sessuale, il tema era sulla carta particolarmente accattivante. Purtroppo esso appare invece un'operazione fortemente convenzionale e prevedibile, alla luce di quanto, oltre Oceano, risulta essere la vulgata di Freud e di tutta cultura europea otto-novecentesca. Completamente assente risulta la nota originalità sia estetica che narrativa di Cronenberg: nulla ci viene risparmiato sulle note di una sottotraccia wagneriana (anch'essa d'accatto), dall'evoluzione dal masochismo al sadismo (con Jung fustigatore e non proprio dei costumi), il dibattito sul transfert e la necessità di rompere i rapporti analista-paziente, quello tra il maestro viennese e l'allievo svizzero. Con l'aggiunta di immagini accattivanti, particolari filologicamente corretti (lettere, ricostruzione dello studio di Freud, scene da Schönbrun e da Berg Gasse), frasi celebri a effetto. con un intento didascalico che appesantisce i dialoghi e anche i ruoli, a cominciare dalla Knightley più a suo agio nella fase isterica che in quella fatale. E se è vero che nella prassi psicoanalitica la parola ha valore terapeutico, un tale accumulo di verbosità mette in guardia da simili analisti. Cartolinesco. Lavora per sottrazione invece Philippe Garrel, che in Un été brulant mette in scena la scarnificata esistenza di due coppie, un pittore e tre attori di cinema (ancora un linguaggio dentro l'altro), i loro difficili amori, lo straniamento e l'insoddisfazione che li coinvolge stabilmente, amplificati da interni spogli, scrostati, decadenti come la loro stessa volontà, che a contatto con la bellezza - qui è Roma - ne risente ancor più negativamente, come nella sindrome di Stendhal. Garrel rappresenta l'ultimo erede della nouvelle vague, interprete di un cinema a volte cerebrale, sempre molto introspettivo, che predilige riflessioni che si inerpicano (e a volte franano) sull'impervio confine della vita e della morte, al pari dei suoi personaggi, densi di una negatività che spesso li uccide. La rappresentazione sceglie forme teatralmente drammatiche, in cui attori e attrici assumono volti ed espressioni che, se non supportate da adeguato mestiere, finiscono per sembrare raffigurazioni sacro-profane da figuranti del dramma esistenziale. A farne le spese qui è Monica Bellucci (con un nudo non così scandaloso come annunciato) in evidente disagio a pronunciare frasi epocali che le si ritorcono contro, in un umorismo involontario che l'aria del festival amplifica. Ma sono tutti i dialoghi a essere sopra le righe («ci sono momenti....», dice la Bellucci con sguardo ieratico; o, appena dopo "averlo fatto", quando sfodera un «sai, io credo in Dio»: al che se sei il moroso fuggi tra i boscimani) e anche qualche scena, come la retata della polizia, improponibile, chiusa con un insulto molto francese a Sarkozy. La seria ricerca estetica e di contenuti di Garrel finisce così per perdersi in carrelli circolari, primi piani insistiti, silenzi inesorabili che rendono sino allo spasimo il vagabondare esistenziale dei suoi personaggi e dello spaesato spettatore. Purgante.
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