La Padova romana nominata da Cesare capitale del Nordest

L’imperatore nel 49 a.C. le concesse la qualifica di municipium per le ricchezze e per l’austerità della sua classe dirigente
Di Francesco Jori

di FRANCESCO JORI

Non ci sono, all’epoca, le periodiche classifiche sulla qualità della vita nelle città; e neanche servono. Basta e avanza una testimonianza autorevole come quella di Strabone, geografo e storico, che definisce Patavium la più bella città dell’impero dopo Roma, collocandola ex-aequo con Cadice. Fin dal 49 avanti Cristo Giulio Cesare, per ricompensarla di essere stata dalla sua parte nel conflitto contro Pompeo e Crasso, le ha concesso la qualifica di “municipium”; il che ha significato ottenere a pieno titolo la cittadinanza romana, diventando l’autentica capitale politica, economica e culturale della X Regio Venetia et Histria istituita da Augusto, come dire il Nordest di allora.

La qualifica è del tutto meritata: non solo per le sue pietre, ma anche e soprattutto per la sua classe dirigente. A partire da un intellettuale degno di entrare nella “hall of fame” dell’impero: Tito Livio, nato nel 59 avanti Cristo da una ricca famiglia espressione della borghesia emergente della città. A 24 anni è già di casa nella fiorente Roma di Augusto. Ma non ama frequentare le conventicole culturali dell’Urbe, e anche per questo viene guardato con un certo snobismo dalla casta.

Uno dei più acidi intellettuali dell’epoca, Asinio Pollione, va spettegolando nei salotti romani che quel Livio, malgrado sia un valente storico, conserva un che di provinciale: come dire, una qual certa “patavinitas”. Ma l’interessato non se ne cale. Tiene in modo particolare alle proprie radici; e in pubblico si fa vedere poco: preferisce restare in casa e lavorare al monumentale “Ab Urbe condita”, 142 libri sulla storia romana dalle origini alla morte di Druso.

Uno sforzo colossale che assorbe tutta la sua esistenza, al punto da rifiutare ripetuti inviti ad occupare cariche pubbliche. Un compito privato però pare l’abbia accettato: secondo alcuni Augusto stesso, che lo stima molto malgrado lo snobismo dei salotti, gli affida l’educazione del nipote Claudio, futuro imperatore.

Nell’ultima fase della propria vita Tito Livio fa ritorno nella sua città natale, dove muore nel 17 dopo Cristo, tre anni dopo Augusto, lasciando un’opera che rappresenta l’esaltazione dei grandi valori etici, religiosi e patriottici di un’antica ed ormai persa Roma.

Patavium-Padova si mantiene ancora a lungo legata ad essi, anche se il prezzo da pagare significa la stessa vita. Lo dimostra nel 42 dopo Cristo Cecina Peto, senatore padovano entrato in contrasto con l’imperatore Claudio, divenuto succube della moglie Messalina.

Quando da Roma gli arriva l’ordine-invito di adeguarsi o uccidersi, non ha dubbi sulla scelta. Non solo: viene preceduto dalla moglie Arria, che si immerge il pugnale nel petto, poi lo estrae e lo porge allo sposo con una frase passata alla storia grazie a Marziale: “Non duole”.

Ventiquattro anni dopo, nel 66, un suo parente, Trasea Peto, filosofo stoico, anch’egli membro del Senato, ne ripercorre la strada, stavolta con uno che non ha bisogno dell’appoggio della moglie per combinarne di tutti i colori, Nerone: all’imperatore che l’ha condannato a morte, e accusato per questo da Tacito di aver voluto “annientare la virtù stessa”, risponde togliendosi spontaneamente la vita. Un uomo e un politico tutto d’un pezzo: come ha dimostrato qualche anno prima, nel 59 a Roma, abbandonando in modo vistoso una seduta del Senato per non essere costretto a tributare particolari onori all’imperatore, da cui ha preso pubblicamente le distanze.

È del resto la stagione in cui la superpotenza romana ha già imboccato la strada di un lungo ma inesorabile declino, anche grazie a personaggi di assai basso profilo: come lo stesso Nerone, che una notte in cui la città non gli pare tanto per la quale le dà fuoco; o come prima di lui Caligola, che conferisce al proprio cavallo il titolo di senatore, creando così un pericoloso precedente giunto fino ai giorni nostri. Ma non è solo questione di politici da strapazzo.

Consumi sopra le righe, importazioni crescenti di beni di lusso, eccesso di circolazione di moneta che finisce per generare inflazione, sono fattori interni cui si accompagna all’esterno una progressiva pressione alle frontiere: che finirà per determinare l’immigrazione di massa di nuovi soggetti sprezzantemente definiti “barbari”, ma destinati a cambiare il corso della storia.

In tutto questo bailamme, la Padova di allora riesce comunque a mantenere a lungo una sostanziale fedeltà agli antichi costumi, che le vale un significativo riconoscimento da Plinio junior: il quale parla di “patavina severitas” per descrivere l’austerità e la serietà di comportamento dei suoi abitanti.

Altra stoffa, decisamente.

(2 - continua)

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