L’accusa della Merlin: il disastro del Vajont fu costruito negli anni

Nelle pagine che compongono il volume “Sulla pelle viva” la giornalista racconta la strage ma anche le sue origini
Di Toni Sirena

LONGARONE. “Sulla pelle viva”, il libro di Tina Merlin in edicola da domani con il nostro giornale, è la storia di «come si costruisce una catastrofe», come dice il sottotitolo. Pubblicato per la prima volta nel 1983, in concomitanza con il ventesimo anniversario del disastro del Vajont, racconta di come, dai primi progetti alla costruzione della diga, dalle lotte degli abitanti di Erto alla notte della strage, anno dopo anno quel disastro fu preparato, annunciato, previsto e portato a compimento attraverso una allucinante sequenza di atti illeciti, documenti falsi, prepotenze impunite, connivenze dei pubblici poteri con gli interessi di un monopolio privato. Una catastrofe, appunto, “costruita”, cioè che non ha niente di naturale, e niente aveva di inevitabile.

Il libro si legge su due piani, che scorrono paralleli. Da un lato la cronaca asciutta, la ricostruzione puntigliosa di una vicenda che ha al suo centro la comunità di Erto. Fu infatti ad Erto che si era sviluppata, negli anni precedenti, la lotta della popolazione prima contro gli espropri e le prepotenze della Sade, la società elettrica che veniva definita “uno Stato nello Stato”, poi per la difesa della propria vita dall’incombente pericolo che sovrastava la valle e che tutti conoscevano. Dall’altro lato un accurato apparato di note che si leggono come un racconto a parte, anch’esso denso di informazioni ma anche di emozioni.

Nelle prime pagine due introduzioni importanti. Una di Marco Paolini: «Questo libro è un onesto pugno nello stomaco di chi sente vergogna di non aver saputo, vergogna dell’ignoranza collettiva intorno al Vajont». E una di Giampaolo Pansa.

Il racconto della lotta degli ertani, iniziata fin dal 1956, si intreccia con molte altre vicende che in tutti gli anni ’50 ed oltre interessano il Bellunese. Al centro di tutte c’è sempre la Sade. A Vallesella, mentre si sta invasando il lago di Centro Cadore, più di 100 case rimangono lesionate. A Forno di Zoldo cade una frana nel bacino di Pontesei, preludio a quanto avverrà sul Vajont. Ad Arsiè 3500 abitanti di una frazione vengono fatti sloggiare per costruire il bacino del Corlo, e 2500 saranno costretti ad emigrare. Ovunque i montanari vengono espropriati delle loro terre per poche lire. Si scopre anche che la Sade fin dagli anni ’20 (epoca dei primi grandi impianti idroelettrici) aveva violato i disciplinari di concessione senza mai rispettare i limiti imposti alle derivazioni e senza mai pagare un solo centesimo di canoni e sovracanoni. A Soverzene, dove il Piave fa un’ampia ansa e svolta verso la Valbelluna, tutta l’acqua del Piave, fino all’ultima goccia, era stata derivata verso il lago di Santa Croce e da lì alle centrali a cascata di Fadalto, Nove, Castelletto, Nervesa, Caneva per finire in un altro fiume, il Livenza. All’altezza di Belluno il Piave, la cui portata naturale era di oltre 50 metri cubi al secondo, ne scorrevano da tempo ormai solo 5, pari alla sola acqua dei piccoli affluenti del tratto tra Ponte nelle Alpi e Belluno.

Alla fine degli anni ’50 la situazione sociale della provincia è disastrosa. Ci sono 30 mila emigranti e 3000 disoccupati su una popolazione di poco più di 200 mila abitanti, il reddito medio è inferiore del 30% rispetto alla media nazionale, c’è una televisione ogni 90 abitanti, gli addetti nell’industria sono il 5% della popolazione, quelli nell’agricoltura calano in dieci anni da 15 mila a 7500, la montagna si spopola. Qui il “miracolo economico” non arriva. Su quanto sta accadendo, in particolare sul Vajont, si moltiplicano anche le prese di posizione dei Comuni e della Provincia, che per discuterne si riunisce anche in seduta straordinaria. Si oppongono agli abusi e alla prepotenza della Sade soprattutto le sinistre, all’epoca fortemente minoritarie, ma voci di protesta si alzano dalla stessa Dc. Vengono presentate interrogazioni parlamentari, le più decise quelle del Pci. Tina Merlin scrive sul suo giornale, L’Unità, numerosi articoli di denuncia. Tutto invano. Il libro racconta dunque la storia del Vajont dal punto di vista di chi aveva visto e scritto di persona. Ed anche con l’amarezza di chi, vent’anni dopo il disastro, aveva dovuto constatare che non si era fatto tesoro della “lezione del Vajont”. Scriveva: «Il Vajont è divenuto un luogo turistico da visitare. Con curiosità, forse con pietà, mai con ribellione». Dal 1983, anche grazie alla grande diffusione del suo libro, qualcosa è cambiato, anche se è da chiedersi fino a che punto. È davvero finita l’epoca in cui un ministro delle Finanze, Volpi, firmava concessioni ad una società della quale era presidente?

Tina Merlin credeva molto a questo libro. Ci credeva perché lo riteneva uno strumento necessario per sottrarre la vicenda del Vajont all’oblio colpevole verso il quale, in quegli anni, pareva inevitabilmente avviata. Spiegava che con il suo lavoro voleva contribuire a ristabilire la verità, «fissare sulla carta una grande esperienza popolare che altrimenti si perdeva o veniva travisata, misconosciuta nel suo valore civile e democratico, e cioè la storia di una comunità che si è battuta con coraggio contro i potenti e che dai potenti è stata uccisa. In difesa morale di questa comunità, bisognava che la verità fosse conosciuta». (la citazione è tratta dalla biografia di Tina Merlin, scritta da Adriana Lotto, “Quella del Vajont”). (t.s.)

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