L’efficacia del logo della ’ndrangheta per intimidire

La violenza della mafia non è distruttiva, ma rappresenta invece, tra le altre cose, un modo per crearsi una reputazione, uno spazio nel mercato, una certa credibilità. E nel settore del recupero crediti i mafiosi possono vantare una marcia in più. È anche una questione di “logo”. Adriano Biason, imprenditore di Piove di Sacco in affari con il gruppo dei Bolognino, l’ha capito benissimo utilizzando il servizio di riscossione crediti della ’ndrangheta garantito in particolare ad Antonio Mangone, sodale dei Bolognino. Lo stile di Mangone è rodato: «A casa mia giù abitualmente quando giro per i paesi giro armato: ho una 9x21 in fondina ed un fucile a pompa», sibila ad un debitore di Biasion. In un altro caso sottolinea sono «calabrese di Cutro», un’altra volta esplicita: «Io sono calabrese, io non vado vie legali, io sappia che sono... noi siamo». Non dimenticando di spettacolarizzare verbalmente alcuni particolari: «Noi siamo quelli che tagliamo le gambe e che ti mandiamo in paese». Insomma con tutta evidenza Mangone utilizza un “logo” quello della ’ndrangheta che da queste parti ha una certa reputazione. L’esibizione del logo non solo garantisce l’efficacia del potere mafioso in un territorio, ma agisce anche come fattore identitario: rafforza l’armamentario mafioso e lo tara alle esigenze del contesto, in questo caso veneto. Cosa può terrorizzare un cittadino del nord? Probabilmente la Calabria rappresenta, dal punto di vista dell’immaginario del cittadino settentrionale, un giacimento della forza ’ndranghetista, il santuario del potere originale. Per i componenti della criminalità organizzata si tratta di una risorsa di intimidazione da evocare al momento opportuno. Come sottolinea Mangone in un’altra occasione: «Sai io sono calabrese ho la famiglia giù che, sai... sennò parlo con la famiglia». Il logo è talmente efficace e attrattivo che finisce per utilizzarlo anche Antonio Gnesotto, originario di Saonara e residente a Villorba, che durante una “missione” con Mangone assicura a un debitore: «Se fossimo da noi tu saresti già sotto terra». E non intendeva Villorba. D’altronde l’abuso del logo è frequente: due settimane fa a Torino quattro persone sono state arrestate accusate di chiedere il pizzo ad un albergatore millantando di appartenere alla ’ndrangheta e cercando di ottenere 50mila euro. Per spaventarlo, gli dicevano che facevano parte della criminalità organizzata e che, se non avesse consegnato il denaro, gliel’avrebbero fatta pagare. La violenza, evocata o praticata, consente alle mafie di controllare transazioni economiche e relazioni sociali. E quando si tratta di recupero crediti tocchiamo un nervo scoperto del funzionamento, o del malfunzionamento, delle relazioni di mercato in questi anni di crisi. L’informalità delle relazioni economiche tipica di questi territori ha funzionato in periodi di abbondanza – “basta una stretta di mano” – e si è rivelata un boomerang quando le risorse hanno cominciato a scarseggiare. Tanto più che le istituzioni, come la giustizia civile, non brillano in efficienza. Per questo i mafiosi sono percepiti come affidabili da imprenditori come Bision o altri che si sono avvalsi dei loro servigi. A volte pure rafforzando la nomea di Mangone, indicandolo, a un suo debitore, come «appartenente ad una organizzazione poco raccomandabile». Con questo la ’ndrangheta conquista risorse relazionali: nell’ambiente si viene a sapere che possono essere utili, che possono «far funzionare le cose». “Da quando c’ho Antonio ho risolto tutti i miei problemi», racconta a un debitore, riferendosi ad Antonio Mangone, l’imprenditore Biasion. —

Gianni Belloni

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