L’infanzia al buio di Vivian Lamarque a Flussi Diversi

di Georgia Schiavon
«Ils coururent presque toute la nuit, toujours en tremblant et sans savoir où ils allaient». Una scena di smarrimento chiude “Teresino”, la prima silloge di Vivian Lamarque: Pollicino, il protagonista della fiaba di Perrault, perduto nel bosco di notte insieme ai suoi fratellini dopo la fuga dalla casa dell'Orco. Il trauma infantile dell’abbandono è una cifra dell’opera della poetessa e scrittrice per l’infanzia milanese, che ha vissuto fin da piccolissima il dolore della perdita delle figure parentali. «Per me l’infanzia è tuttora, quasi settantenne, terreno minato. Sento il bisogno di rigirarci intorno, ma a volte sbaglio le distanze di sicurezza», si racconta la Lamarque, che venerdì inaugurerà Flussidiversi, il festival di poesia in programma a Caorle fino a domenica, con un ampio ventaglio di reading, performance e concerti. Figlia illegittima, la madre, una donna trentina di confessione valdese, fu costretta ad abbandonarla quando aveva solo nove mesi. Adottata da una famiglia milanese, all’età di tre anni perse il giovane padre acquisito. Il disorientamento determinato dalla presenza di una doppia figura materna (la “madre e non-madre” e “l'altra”) e paterna (“babbo I” e “babbo II”) riecheggerà nel suo vissuto amoroso, fin dai primi innamoramenti adolescenziali: “il mio primo amore – scrive in una poesia – erano due”. A metà degli anni Ottanta l’entrata in analisi, un’esperienza che si intreccerà strettamente con la sua produzione poetica: al suo terapeuta dedicherà tre raccolte. Il “Dottor B. M.”, “intoccabile” nella realtà, ma “baciabilissimo” nei sogni, incarnazione dell’ “uomomamma”, diventa oggetto di un infantile amore di transfert. «La psicoterapia» spiega «unita alla poesia, mi ha salvato la vita: mi ha ridisegnato la linea che separa il sogno dalla realtà». L'opera poetica della Lamarque è la storia di una “signora” che fa sogni d’oro ad occhi aperti, costruisce castelli in aria, s’infila dentro una lettera o una valigia e ancora si perde in un bosco terrificante. Sotto la superficie a prima vista semplice di un registro infantile, fiabesco – caratterizzato dall’uso dell'imperfetto, dell’iterazione, della rima facile – si cela la sofferenza, insidiosa, inattesa e per questo ancora più spiazzante: Teresino, in apparenza il diminutivo di un bambino, è anche il campo di concentramento nazista di Terezin; le stelle che illuminano la notte sono anche gli occhi dei lupi che spaventano i bambini; il sonno di una ninna nanna è anche l'inquietante “Paese delle Palpebre Chiuse”. L’infanzia, è un mondo nel quale lo sconcerto è il lato oscuro della meraviglia, dal quale si vuole prendere le distanze, ma al quale sempre si fa ritorno: «Per i bambini ho scritto una cinquantina di opere: nelle prime, senza rendermene conto, scrivevo non a loro, ma a me stessa. Col passare degli anni ho iniziato a scrivere pensando ai bambini che mi avrebbero letta. A volte, però, ancora me ne dimentico».
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