Medrano: «Il Nordest è un rap in dialetto»

Stasera a Padova concerto di presentazione del disco “#Gnente”, storie, volti e paradossi della vita di tutti i giorni
Di Matteo Marcon

DOLO. Dentro alla valigia? “#Gnente”. Quello che Herman Medrano tratteggia con i brani del suo nuovo disco sembra il ritratto di un popolo a cui ormai è rimasto ben poco di veramente prezioso. Storie, volti, paradossi che si affrontano nella vita di tutti i giorni: dalla videomania dei telefonini alla sindrome di inferiorità del “piccolo” Nordest, dal consumismo alla crisi. Il rapper della riviera del Brenta è tornato e ce n’è per tutti. Medrano, al secolo Ermanno Menegazzo, accompagnato dalla sua ormai inseparabile live band, The Groovy Monkeys, presenterà l’ultima fatica, “#Gnente”, stasera al Mame di Padova. Si tratta del decimo album di una lunga discografia: si parte nel 1993, con il nickname “Uno”, e si arriva alla svolta dialettale, dieci anni dopo, nel 2003, con “Fisso e Tacchente”. Se oggi i rapper tatuo-patinati impazzano ai piani alti delle classifiche è anche merito dei veri capostipiti della scena hip hop come il “nostro” ruspante «figlio delle posse».

Giusto per rinfrescare la memoria: il precedente “Nosseconossemo” vantava le collaborazioni eccellenti di Piotta, Caparezza, Roy Paci, Balasso e Skardy. Dal punto di vista musicale, proprio come il territorio che racconta, il nuovo disco si mostra astioso ma permeabile a diverse influenze: dal gusto orientaleggiante della “Dansa dea Bagoina” ai ritmi in levare in stile ska-reggae, passando per il rock, il dubstep e l’edm della title track. Non sarà mai l’aulico poetare di Andrea Zanzotto, nemmeno il verbo antico dei diari di Marin Sanudo o il teatrale veneziano di Carlo Goldoni, ma il dialetto di Herman Medrano, sparato a tutta velocità, senza filtri, sembra raccontare la società di oggi, dal basso, meglio di tanti saggi e ricerche di mercato. Scovando parole dimenticate, rime impossibili ed espressioni ipercolorite, il rapper incarna un affascinante paradosso: l’adesione alla forma espressiva più moderna, metropolitana, contemporanea, quella del rap, e al tempo stesso la volontà di combinare tutto con l’espressione idiomatica più radicale e identitaria, il suo dialetto. «Quello che si parla a Dolo» spiega «che è una variante del padovana del veneziano».

E parlando dei veneti, invece, miglior pregio e peggior difetto?

«Niente mistificazioni e detrazioni sul popolo veneto. Abbiamo tanti pregi e difetti come altre popolazioni italiche. Siamo grandi lavoratori e abbiamo una storia gloriosa alle spalle, che è andata in frantumi in un attimo e non è stata più ripescata, neanche dai libri di storia. Questo è gravissimo. Uno dei nostri difetti è che non sappiamo vendere bene i nostri prodotti, a differenza di altri, che spesso hanno per le mani qualcosa di più scadente».

“A mian” parla proprio di questo: siamo cronicamente subalterni ai milanesi?

«Non guardiamo mai fuori e stiamo qui a piangerci addosso. Ma questa mentalità campagnola è anche una fortuna».

Spesso se la prende con la nuova scena rap, perché?

«Cambiano le generazioni ma il difetto dei giovani, in tutti i generi musicali, sta sempre nella poca umiltà e nella strafottenza nei confronti di chi li ha anticipati».

«El tornado che xe drio desfarte a casa» è un verso di “Faghe un video”: omaggio alla popolazione della riviera colpita l'estate scorsa?

«Macchè, quel brano era uscito un mese prima del disastro dell’8 luglio, il video l’abbiamo girato in aprile. Quel giorno non ero in zona, ho visto le scene in tv, mi è sembrato di ricevere una coltellata nello stomaco. Ho ricevuto tante telefonate, quello che canto nel brano si è verificato, puntualmente: in molti col tornado a due passi dalla loro abitazione hanno tirato fuori il cellulare e ripreso la scena».

Il Nordest ha il suo profeta. Stasera, dalle 22. Mame Club via Fra’ Paolo Sarpi 48, Padova. Ingresso offerta libera con tessera Arci.

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