«Mio marito morto di tumore: lo Iov lo ha abbandonato»

Padova. La lettera di una donna per denunciare la mancanza di attenzione e cure a un paziente giudicato inguaribile
A young hand touches and holds an old wrinkled hand in hospital
A young hand touches and holds an old wrinkled hand in hospital

PADOVA. Anche quando ogni speranza di cura sembra perduta, rimane la dignità. Del malato e della sua famiglia, per cui ogni giorno in più passato insieme ha un valore inestimabile.

È un messaggio forte quello lanciato da Sandra Casoni, che in autunno ha perso il marito (56enne) per un grave tumore.

Un male che lei stessa definisce «incurabile» ma che poteva essere seguito con attenzione, facendo sì che quell’ultimo periodo trascorresse senza troppe sofferenze, e magari si allungasse un po’. Non è successo, dice la signora, al prestigioso Iov di Padova.

Così si è reso necessario un trasferimento al Sant’Orsola di Bologna, dove la famiglia ha finalmente ricevuto le risposte e l’impegno che cercava. Nel gran dibattito sul fine vita, la signora interviene da un punto di vista diverso, raccontando una storia personale (già comunicata più volte all’Istituto Oncologico, senza mai ricevere risposta) fatta di dolore e grande dignità, rincorsa fino all’ultimo. «Oggi» esordisce Sandra Casoni, che scrive per la prima volta il 16 novembre «è un mese che è morto mio marito. Di cancro. Di quelli definiti inguaribili. A lui purtroppo è capitato uno dei peggiori ma, come tutti i malati oncologici, con diritto di sperare e di trovare una qualità della vita dignitosa».

La chirurgia era riuscita a fermare il tumore per i primi nove mesi, poi la malattia è riapparsa in condizioni tali da obbligare i medici ad escludere la chemio. Così, continua la lettera, «La soluzione adottata è stata un drenaggio biliare. Sin dai primi giorni post dimissioni, mio marito ha più volte riferito ai medici che il drenaggio non funzionava. Le sue condizioni peggioravano e continuavamo a chiedere di sistemare il drenaggio, ma le risposte arrivavano in tempi direi deplorevoli. Dopo sei ore di attesa nei corridoi ci siamo sentiti dire: “non ho tempo, dobbiamo fare un’altra volta” oppure dopo il ricovero e l’ennesimo tentativo di metter mano al drenaggio: “non possiamo fare nulla, va bene così”. Intanto i mesi passavano e da giugno arriva agosto senza che nessuno, dico nessuno, abbia provato a verificare l’esistenza di altre vie percorribili. Così mio marito prende in mano la sua vita e, grazie ad esperienze di altri, ci rivolgiamo all’équipe della dottoressa Golfieri, radiologia interventistica del Sant’Orsola di Bologna».

Qui la famiglia scopre con sconcerto che il drenaggio era «di piccolo calibro e mal posizionato».

«Di fatto» continua la signora «il tempo trascorso senza che i medici dello Iov fossero in grado di intervenire ha impedito a mio marito di provare ad allungare le aspettative di vita». Sulle speranze di salvezza la signora è realista: «non c’erano» dice «ma poteva vivere meglio e forse di più. Qualcuno si rende conto di cosa vuol dire togliere quattro mesi ad un paziente oncologico e alla sua famiglia?».

Argomenti:oncologia

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