Negozi aperti nella città deserta Padova si immerge in zona rossa

Resistono le catene: serrande alzate per profumerie e casalinghi, ma poca gente in giro 

Padova

Si può comprare il rossetto, ma non andare dal parrucchiere. Si può acquistare mascara fino a incollarsi le ciglia, ma non andare a farsi la ceretta. La zona rossa – evidentemente disegnata dagli uomini – è un tripudio di contraddizioni e maglie larghe. Oltre che di scarsissima sensibilità di genere. E così anche Padova, a distanza di un anno, si immerge nel suo secondo lockdown – considerando che quello a singhiozzo delle feste è stato trascorso dai più in overdose da zuccheri sul divano –, chiudendo in casa la gente ma lasciando aperta la stragrande maggioranza dei negozi.



Se un anno fa, per i tre mesi successivi a una chiusura scioccante e improvvisa era stato necessario rivolgersi ad Amazon anche per comprare solo un paio di mutande, ora nelle due settimane di zona rossa programmata, si scopre che anche le bolle per un bagno profumato sono considerate un bene di prima necessità, evidentemente agganciate a un codice Ateco che fa di ogni voce della cura alla persona un fascio di negozi aperti: ed eccole in centro tutte le profumerie aperte, ma anche i negozi di casalinghi, ché in fondo nell’ultimo anno nessuno ha cucinato e potrebbe essere impreparato. E ancora, serrande alzate su erboristerie, negozi di occhiali, telefonia, gelaterie, perfino lo sfiziosissimo Tiger, aperto per essere avvolto all’80% da spettrali sacchi di plastica neri: si possono acquistare solo prodotti da cartoleria. E peluche per i bimbi. Operativi in massa anche i negozi di intimo, che pure ormai vendono di tutto, ma non tutto si può comprare: quello che è proibito, l’abbigliamento casual, è transennato dal nastro bianco e rosso, si salvano pigiami in gran quantità e in molti casi anche le tute. Dopo un anno tra letto e divano, indubbiamente beni di prima necessità. Così come i negozi di abbigliamento per bambini – a cui tuttavia non è previsto crescano i piedi – e le librerie.

A fare la parte del leone, ancora una volta, sono le catene, a esclusione di quelle strettamente dedicate all’abbigliamento; chiusi i piccoli negozi che non possono contare su codici Ateco multipli a interpretazione elastica.

Serrande a mezz’asta in uno dei negozi storici di profumeria-bigiotteria di piazza delle Erbe: giusto lo spazio per far infilare ai corrieri i pacchi che, come recita il cartello, possono essere lasciati sulla porta. Pochi passi più in là, davanti al Comune, la boutique Dodo, gioielli e affini, si vota a un inconsueto delivery. La consegna a domicilio e l’asporto sono anche gli unici appigli dei bar aperti sulle piazze vuote. Una sfida che, com’è noto, non tutti sono più disposti ad accettare.



Eppure ieri mattina, primo giorno di zona rossa, sembrava che avessero tolto di nuovo il volume alla vita: come un anno fa il silenzio era tornato il rumore prevalente, come se il coprifuoco avesse esteso il suo abbraccio al giorno. Un giorno pieno di quel sole che, sempre dodici mesi fa, aveva inondato le giornate casalinghe. Il weekend appena concluso, con i suoi sprazzi di pretesa normalità, sembrava un ricordo lontano. Poche le macchine in giro per le strade: non il vuoto pneumatico di allora, ma comunque un andare timido e sparuto, una sorta di ronzio ferragostano. Pieni invece i parcheggi nelle zone residenziali a rivelare una ripresa massiccia della didattica a distanza, rafforzata da uno smart working mai realmente superato.

Pressoché deserti i quartieri, in cui l’unica scusa per una passeggiata è agganciata, questa volta sì, a servizi a loro modo primari: dagli alimentari ai tabaccai, oltre a giornalai e uffici postali. Più significativa, nelle prime ore del pomeriggio, la presenza lungo gli argini, ché la salute passa anche per un quarto d’ora d’aria.



In centro come nei quartieri la gente in giro è comunque poca: vuoi perché naturalmente più reattiva a rispondere a regole ferree che non nella gestione di limiti più elastici. Vuoi perché la zona rossa richiama ricordi di pericolo, riavvolgendo il nastro a un periodo che pure, in qualche modo, si pensava superato per sempre. Eppure è l’aria a essere diversa rispetto a un anno fa: negli sguardi non c’è il terrore attonito di allora, semmai una rassegnazione inerme e a suo modo tossica.

Anche in centro la gente cammina senza né timore – né baldanza –, arriva a schizzi più che a ondate. Spalancati portoni importanti, come quello di Palazzo Moroni e del Bo, provano a inviare un silente messaggio di speranza. Significativo il dispiegamento di forze dell’ordine, lungo il Liston e le piazze, a piedi e in macchina: vigilano su eventuali comportamenti palesemente illeciti, anche se il loro intento sembra più dissuasivo che punitivo. Del resto, se ognuno dei negozi aperti è stato ritenuto di prima necessità, diventa ingiustificato anche solo pensare di multare una donna che si sta recando, ad esempio, in profumeria.

Non fosse che ieri in fondo era “solo” lunedì, giorno in cui un clima tradizionalmente sonnacchioso ha incontrato nuove regole restrittive che solo i più audaci hanno osato testare. Ma cosa succederà tra qualche tempo, quando si sarà sparsa la voce che si può andare da Sephora come da Kasanova o da Lush senza incappare in sanzioni? Difficile dirlo: una sola cosa è certa: in questo secondo – leggero – lockdown, almeno i cani possono tirare un respiro di sollievo: non c’è bisogno di trascinarli in improbabili maratone per avere la scusa di prendere una boccata d’aria. —



Riproduzione riservata © Il Mattino di Padova