Nel bosco crescono anche insidie mortali
Tante piante tossiche sono simili a quelle commestibili e l’errore costato la vita agli Agadi è in agguato: i consigli del naturalista

CORREZZOLA. Raccolgono del colchico d’autunno sui pendii della Folgaria scambiandolo per zafferano e lo usano per preparare un risotto. Ma quella pianta contiene la colchicina, sostanza letale per il corpo umano. Hanno perso la vita così Giuseppe Agadi e Lorenza Frigatti, 70 e 69 anni, entrambi residenti a Villa del Bosco di Correzzola. Un risotto condito con quello che pareva zafferano, ma che invece era una pianta mortale, ha causato l’avvelenamento di entrambi.
Un caso paradossale, ma tutt’altro che raro. Lo sa bene il monselicense Gastone Cusin, naturalista stimato dei Colli Euganei e soprattutto autorevole micologo, che dell’educazione “nell’andar per boschi e colli” ha fatto quasi una missione di vita: «Purtroppo il rischio di confondere una pianta per un’altra, dannosa se non letale, è tutt’altro che raro. Il croco, da cui si ricava lo zafferano, può ed esempio essere confuso con il colchico, che è pianta mortale, ma lo stesso errore si può fare con il lampascione, la “leopoldia comosa”, quella che conosciamo come cipolla canina e che è notoriamente commestibile. Prima della fioritura il colchico e il lampascione si assomigliano molto ed entrambi non hanno il caratteristico odore di aglio selvatico di altre piante commestibili. La vera differenza è che il lampascione si può mangiare, il colchico ti uccide».
Cusin snocciola una serie infinita di possibili errori che possono rivelarsi letali: «Prendiamo ad esempio l’oleandro. Il colore vivace dei fiori attira tantissimo, ed è capitato molte volte che qualche bambino provasse ad assaggiare quei fiori così invitanti rischiando di morire. Più o meno come avviene per il maggiociondolo, il “laburnum anagyroides”, i cui fiori sono simili a quelli della robinia. Molte persone hanno la tradizione di mangiare i fiori di robinia fritti e, davanti a quelli del maggiociondolo, si dicono: “Guarda che bel giallo, questi saranno ancor più buoni della robinia”. Anche in questo caso si rischia la morte nell’ingerire la pianta».
Altra possibile confusione arriva con la cicuta maggiore, «che da piccola assomiglia moltissimo al prezzemolo» mette in allerta Cusin «Poi c’è tutto il mondo delle piante rampicanti, come il tamaro. È un pianta che d’autunno presenta bacche molto rosse, invitanti in particolar modo per i bambini che non si fanno problemi ad assaggiarle. Purtroppo nei boschi capita spesso che ragazzini senza il controllo dei genitori si avventurino ad assaggiare frutti così velenosi».
E dove la pianta non si rivela letale, nell’immediato o nel giro di qualche tempo, si può anche incorrere in conseguenze meno gravi ma non per questo meno fastidiose: «È il caso della grande famiglia delle euforbie, come la catapuzia: sono piante verdi che procurano lesioni anche solo al contatto con la pelle. Immaginiamo dunque cosa possono fare se finiscono tra le erbette di qualche risotto: l’effetto sicuro è qualche dolorosa piaga nell’apparato digerente». Più volte Cusin, e chi opera con lui nel Gruppo Micologico Monselicense, ha scongiurato l’avvelenamento di qualche incauto raccoglitore di piante e funghi: «Ricordo una signora, che nei nostri Colli Euganei aveva raccolto pregevoli funghi, ma che nel mostrarmi orgogliosa il suo bottino si era salvata la vita: in mezzo c’erano numerosi esemplari di “amanita phalloides”, fungo molto velenoso. In quel caso il consiglio è di buttare via tutto, compresi i funghi custoditi assieme a quelli velenosi. Basta un piccolo frammento ingerito a provocare l’avvelenamento».
Proprio per educare la popolazione ad evitare errori che possono anche costare la vita, Cusin e la sua associazione tengono lezioni aperte a tutti ogni due settimane. Il Gruppo Micologico Monselicense vanta inoltre un giardino botanico di piante velenose al Parco Buzzaccarini, destinato alla didattica. «I consigli che mi sento di dare, in tema di precauzione, sono due. Il primo è di rivolgersi, in caso di dubbio, al micologo dell’Usl che ha, tra i vari compiti, anche quello di visionare piante e funghi per indicarne la commestibilità. Il secondo è molto semplice: bisogna sempre porsi il dubbio su ciò che si raccoglie e, alla minima incertezza, evitare di raccogliere o buttare via tutto».
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