Precisione con fantasia il segreto di Dino Buzzati
Un uomo dall’elegante estraneità, un misto tra timidezza e orgoglio. Ma di un orgoglio “dolomitico”, che rispecchiava la sua origine e il suo trovarsi sospeso tra pianura e montagna. E proprio quest’ultima si percepiva dalla sua sobrietà, unita a un “understatement” inglese. Aspetti che traspaiono nella foto appesa nel mio ufficio, in cui il giornalista è ritratto con una fioraia all’angolo di via Solferino». Con queste parole de Bortoli, ricordando anche le proprie radici bellunesi, ha voluto ricordare la figura di Buzzati, del quale ha ripercorso alcune tappe della carriera giornalistica e di scrittore e le testimonianze di coloro che lo conobbero in prima persona. «Arrivato al Corriere della Sera», ha sottolineato De Bortoli, «Buzzati non presentava quella voglia irrefrenabile di emergere che avevano altri giovani appena entrati. Faceva le notti (che tutti evitavano) e all’inizio scriveva poco. Non parlava mai di politica e di questa sua ignoranza si fece scudo per tutta la vita, nell’epoca della guerra per necessità». Buzzati passò dalla cronaca nera, per la quale aveva una vera e propria vocazione, al reportage, dalla recensione teatrale all’elzeviro. Fu anche straordinario corrispondente di guerra, «nonostante la sua voce stridula, definita da alcuni “miagolante”», riuscendo spesso a ingannare la censura, «mostrandone nello stesso tempo la stupidità». «I pezzi da cronista di Buzzati», ha commentato Lorenzo Viganò, giornalista del Corriere della Sera e curatore di alcune raccolte dello scrittore bellunese, «sono ancora oggi di estrema attualità per il rigore e lo stile con cui sono raccontati i fatti. In lui si incarnava il ruolo del giornalista, che consiste nell’essere lo storico del presente».
Ma la particolarità di Buzzati consisteva anche nel riuscire a far sì che i suoi occhi diventassero gli occhi del lettore. Aveva dimestichezza nel raccontare un tema come quello della morte: un esempio per tutti il suo articolo del luglio 1947 sulla tragedia di Albenga (in cui persero la vita, tra gli altri, 43 bambini), letto nel corso dell’incontro di ieri da Sandro Buzzatti. «Dino Buzzati nei suo articoli, pensiamo al celebre “Natura crudele” sul disastro del Vajont», ha precisato de Bortoli, «creava una commistione tra cronaca e fantasia. Ma questo non vuol dire che non raccontasse il vero, anzi: descriveva il fatto con la massima precisione, la fantasia gli serviva per farsi capire meglio dal lettore e perché quest’ultimo riuscisse a “raffigurarsi” ciò che era successo. La fantasia dava al pezzo quel taglio che permetteva di immaginare la scena». Era un giornalista preciso, ma “scioglieva” tutto grazie alla poesia, che non significa mistificazione.
Giornalista e scrittore erano due mestieri che in Buzzati si compenetravano, ma rimase sempre prima di tutto giornalista. «Nel 1940, con l’uscita di Il deserto dei Tartari, ha aggiunto Viganò, «avrebbe potuto lasciare, invece ha continuato a raccontare fatti per altri 31 anni». E, a ben guardare, gli incipit dei romanzi buzzatiani hanno tutta l’aria di essere dei veri e propri attacchi giornalistici.
«Ed è incredibile», ha detto ancora Viganò, «come i suoi scritti rispecchiassero bene la realtà in cui viveva e i cambiamenti a cui è andata incontro nei diversi decenni. Scrivere facile – vale a dire in modo semplice, ma che non significa piatto e banale - è molto difficile: Buzzati ci riusciva perfettamente».
M.R.
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