Priapo a Nordest tra ipocrisia e Chiesa

Tra ’800 e ’900 l’eros intrappolato dalla morale borghese
Di Tono Galla

di Tono Galla

VICENZA

«Che pecà, che i pecà sia pecà”. Nessun altro proverbio veneto potrebbe sintetizzare in modo migliore il conflitto tra voluptas e virtus, che grande parte ha avuto nella cultura, soprattutto letteraria, otto-novecentesca. In ambito veneto tale conflitto si snoda dai turbamenti causati dalle pulsioni dell’eros e quelle del misticismo che vivono molti dei personaggi dei romanzi di Fogazzaro per giungere fino all’indimenticabile, e irripetibile, affresco cinematografico di Pietro Germi “Signore e signori” che coglie la borghesia della provincia veneta nel pieno degli anni del boom economico, agitata dal desiderio di trasgressione e libertà sessuale, ma, ipocritamente, intrappolata dai rigidi codici della morale benpensante dettati dalle gerarchie cattoliche.

E sono proprio i proverbi che costituiscono il nucleo portante di “Priapo e Nordest - Studi e ricerche dell’Ottocento su sessualità ed erotismo popolare in area triveneta” appena pubblicato dall’editore Agorafactory (14,50 euro) e curato dallo storico Emilio Franzina. Molto gradevole l’apparato iconografico che riproduce le tavole della “Nova iconologia” di Cesare Ripa stampate a Padova nel 1618. Messi da parte, per un attimo, gli studi sull’emigrazione italiana in Sudamerica e la sua attività di docente di storia contemporanea all’Università di Verona, Franzina si è concesso questo divertissement riportando alla luce gli studi di tre autori veneti dell’800 su un tema allora decisamente scabroso e da trattare con estrema circospezione come l’erotismo, in modo particolare quello del popolo; di questi studi, in appendice, vengono riprodotti ampi stralci. Studi che, in qualche modo, riprendono la tradizione veneta, in questo campo, segnata dall’opera di Angelo Beolco meglio noto come Ruzante e del patrizio veneziano settecentesco Giorgio Baffo che ha legato il suo nome alla celebre “Ode alla mona”: la cultura riferita alla “naturalità” del modo di vivere del contado che, nel nome del sesso, si ritrova a fianco delle facezie licenziose dell’aristocratico.

I tre eruditi locali “ripescati” da Franzina sono il leoniceno Cristoforo Pasqualigo (1833-1912) e i veronesi Ettore Scipione Righi (1833-1894), avvocato appassionato di studi sul folklore e sui canti popolari e il conte Arrigo Balladoro (1872-1927) anch’egli raccoglitore di detti ed espressioni della cultura contadina. Prezioso soprattutto il recupero dei “Centocinquantadue proverbi troiani raccolti e stampati ad uso esclusivo degli studiosi della demopsicologia” pubblicati a Treviso, presso Zoppelli, nel 1882 da Cristoforo Pasqualigo. Il fatto che si trattasse di un’edizione di 47 esemplari fuori commercio e “riservata agli studiosi la dice lunga sulla pruderie dell’epoca anche se,poi, l’elenco dei detti popolari non ha certo peli sulla lingua. Qualche esempio: “L’oro e il cazzo fa tirar la mona” mitigato da un più politicamente corretto “se la dona non vol l’omo non pol” anche se poi un altro proverbio avverte “dona che se lassa palpare le tete, non sa tegner le gambe strete”. E così via citando numerosissimi frammenti di una pseudo saggezza popolare figlia di una cultura che attraversa i territori del maschilismo più bieco e quelli del disincantato cinismo in nome del fatto che naturalia non sunt turpia.

In appendice “Priapo a Nordest” presenta anche la raccolta “Proverbi erotici e scatologici del Veneto” di Arrigo Balladoro che al termine di una lunga serie di variazioni sul tema del proverbio “scollacciato”, prende congedo dal lettore con un proverbio dal sapore di saggezza sottilmente malinconica “Quando era bon da darghelo, non era bon da dirghelo; e adesso che son bon da dirghelo, non son più bon da darghelo”.

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