Quel giornalista cresciuto tra i mafiosi

L’uccisione del padre, la tentazione criminosa, i segreti di Palermo, l’arrivo a “Repubblica”, gli scoop su Cosa Nostra
P; Di Francesco Viviano

Per gentile concessione dell’ editrice Chiarelettere, pubblichiamo un brano tratto da “Io, killer mancato. Il giornalista cresciuto con i mafiosi” (pp. 160), il nuovo libro di Francesco Viviano, inviato di “Repubblica”.

di Francesco Viviano

La prima volta che mio padre finì in prigione fu a causa di un amico, Giovanni Cottone. Erano tutti sopra uno strascino, un lungo carretto tirato da un cavallo, carico di mobili, statue, porcellane e argenteria. Era quasi sera. Avevano appena svaligiato un appartamento nel palazzo di un principe in corso Vittorio Emanuele, nel cuore di Palermo, quando spuntarono due carabinieri in bicicletta. Giovanni si spaventò, saltò giù e si dileguò tra i vicoli. Mio padre e gli altri non si scomposero. Quando i carabinieri chiesero che cosa stessero facendo, risposero che il principe li aveva incaricati di portare quella roba in un magazzino di sua proprietà, ma quelli non ci cascarono e li portarono tutti in caserma. Mio padre fu rilasciato dopo qualche giorno perché non aveva ancora compiuto diciotto anni. Così scoprii che ero figlio di un ladro e di un borseggiatore .

(... A parlare fu Ciccio Spara Spara, uno degli amici più intimi di mio padre, molto rispettato nel quartiere Borgo Vecchio di Palermo. «Tu sai com’è morto tuo padre, vero?», mi chiese piangendo di dolore e di rimorso perché si sentiva ancora responsabile. Io annuii, anche se non sapevo nulla. E lui proseguì: «Eravamo qui, proprio in questa taverna, quando organizzammo il colpo che gli costò la vita. Già due volte avevamo rubato pelli in una conceria nel quartiere Guadagna, e quella sera cominciammo a sfottere tuo padre. Gli dicemmo che non sarebbe stato capace di tornarci per la terza volta. Lui ci guardò con sdegno, bevve l’ultimo bicchiere di vino e disse: “Andiamo”. «Arrivati alla conceria, scavalcò il muro e si calo dall’altra parte. Noi aspettavamo che cominciasse a lanciare le pelli che aveva trafugato, invece, dopo una ventina di minuti,sentimmo tre colpi di pistola. Gridammo: “Toto, Toto!” mentre risuonavano altri spari. Tuo padre non era armato, e così capimmo che era finita male. Attraverso un buco del muro lo vedemmo a terra ferito. Si tirò su, fece qualche passo verso una fontanella del cortile, la raggiunse e cadde di nuovo. Non si alzo più». Nel cuore della notte, quando i carabinieri vennero a bussare a casa nostra, mio nonno li seguì fino al cortile della conceria e vide Toto con la faccia sulla ghiaia e il cranio crivellato di colpi. Mia madre si gettò sul suo corpo e non voleva più staccarsene. Dovettero allontanarla a forza per consentire a Giuseppe Martorana, medico legale del Policlinico di Palermo, di compiere i primi accertamenti. Contò tre colpi in testa, poi il cadavere fu portato al reparto di medicina legale dell’ospedale.

Enza prese la sciarpa di seta blu che Toto portava sempre addosso e il vecchio orologio da polso con il cinturino marrone fermo alle 23.30, l’ora della sua morte. Si rese conto che la sua vita, e soprattutto la mia, sarebbe stata ancora più difficile.

Aveva soltanto diciannove anni ed era già vedova. Al funerale partecipo mezzo quartiere. Mia madre, con me in braccio, era in prima fila con le sorelle di miopadre (Rosa, Vincenzina, Lina, Lucia, Elena) e Pinuzzu, il fratello più piccolo. Mancava solo l’altro fratello, Francesco detto «Ciccio», rinchiuso nel carcere militare di Gaeta perché aveva preso a pugni un ufficiale durante il servizio di leva.

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