Safet Zec, scavare nella miniera dell’arte e della vita

di Anna Sandri
La pittura come una miniera. Scendere a mani nude in fondo quella miniera, scavare: materiali, sensazioni, vissuti. E con le mani nude portare tutto questo alla luce, affidarlo alla tela e alla carta, al disordine di un tavolo di artista dove i colori gocciano e i pennelli attendono di essere presi tra le dita.
Safet Zec, quando parla delle mani, le guarda: dice che è incredibile quel che la mano dell’uomo riesce a fare, è «un miracolo». E se lo dice lui, figurarsi chi davanti al suo lavoro si trova, investito da luoghi, stagioni, cose e vite che investono tutti i sensi e tramortiscono di bellezza e di potenza, e di dolore, anche.
La Fondazione Benetton dedica a Safet Zec, nella sua sede di Palazzo Bomben a Treviso, una monografica - “La pittura come miniera”, appunto - che offre una visione ad ampio spettro dell’opera dell’artista: con la cura di Domenico Luciani, nelle quattro sezioni e in 70 opere si incontrano Cose, Persone, Alberi e Luoghi. E dunque il realismo poetico di cui l’artista bosniaco è considerato principale esponente, e che qui è contenuto negli anni che vanno dal 1970 al 2010, pur con qualche significativa incursione in un passato più lontano.
Oggi Safet Zec è al centro dell’attenzione: sono passate poche settimane da quando papa Francesco ha benedetto, nella cappella della Passione della Chiesa del Gesù a Roma, la sua “Deposizione”; a Parigi si sta preparando una mostra con le opere di preparazione alla grande opera romana, anche quelle dove il Gesù era visto di spalle perché così lo sentiva l’artista, ma non il committente. Tra religioso e sacro, la differenza è ovvia: ma Zec sembra pensare che sia anche vaga, perché «tutto quello che fai con amore è sacro».
Dunque sacre sono anche le Cose: siano esse patate o una finestra sporca o una credenza, attorno al segno perfetto si intuisce un mondo intero, che ha voci e odori e vive di vita propria pur accettando di mostrare quel qualcosa di sè. Sacri sono i Luoghi ai quali appartiene, più che ad altre sezioni, il dolore di Zec. Gli alberi della serie “Bentbasa” oggi non esistono più: la geografia nella quale ha depositato la memoria della sua arte è stata mutilata dalla guerra, «la gente li ha tagliati, ne ha fatto legna per riscaldarsi».
La guerra lascia dietro di sé il vuoto, ma Zec si emoziona e si commuove quando parla del progetto di Osmace e Brezani, i campi che tornano a vita grazie ai giovani che la guerra aveva diviso e la terra ha riunito. Quei campi che hanno vinto il premio Scarpa per il Giardino 2014, progetto nel quale anche questa mostra rientra e che è dedicato alla figura di Alexander Langer: «I giovani devono tornare nella loro terra» dice Zec «e quanto sta facendo la Fondazione è una cosa bellissima». La guerra c’è, in questa mostra: è il filo teso tra le opere, le pagine strappate di giornali usati come fondo, pezzi dei collage, i titoli sono quelli di allora; la ferita resta alla base della vita.
Alberi giganteggiano tra pittura e incisione, con le loro chiome imponenti, che invadono lo spazio. Ma sono forse le Persone quelle che più mettono in luce lo straordinario talento di Zec per il disegno. Anche se «una distinzione fra astrattismo e realismo non ha senso» dice l’artista, e il curatore annuisce, invitando a una diversa visione dell’opera: il perfetto realismo che si coglie nella visione da lontano evapora quando ci si avvicina all’opera, e ci si rende conto che anche le più perfette figure - come l’“Uomo” che accoglie i visitatori sulla scalinata di Palazzo Bomben - sono in realtà un groviglio di segni indistinti, punti astratti che solo la mente dell’artista riesce a tradurre - nell’insieme - in figura compiuta.
Lo sguardo insegue le mani: mani che sfiorano, che accarezzano, che sostengono. Mani che urlano fatica, vecchiaia, talento: sono così complesse da disegnare, la prova più difficile per un artista. Ci sono anche quelle di Zec, pochi tratti sul legno rubato al fondo di un cassetto. Ritratte come per uno studio: una meraviglia.
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