Serena, calvario quotidiano per tornare a camminare

TERRASSA. «Se ti dicono che non si può, tu provaci»: è quello che Serena fa ogni giorno, quando si alza dalla sedia a rotelle e imbraccia le stampelle per allenarsi, quando affronta un doloroso intervento chirurgico dietro l’altro per salvare la sua gamba martoriata, quando si laurea tra un ricovero e l’altro per poi continuare a studiare, quando si alza in piedi e raggiunge il traguardo abbracciata dalle sue amiche.
Da dieci mesi Serena Banzato, 34 anni, mamma di un bimbo di tre e mezzo, sta affrontando la sua sfida più grande.
La malattia Da quando, alla fine dell’agosto 2018, mentre stava portando a termine il Cammino di Santiago (lei è maratoneta professionista), un’esperienza a lungo desiderata, venne colpita dalla fascite necrotizzante, una rara ma molto severa infezione alla gamba sinistra accompagnata da fortissimi dolori.
Il ricovero all’ospedale spagnolo di Lugo, in Galizia, fu drammatico. «Prima mi curarono con degli antibiotici» racconta Serena «ma la gamba si era gonfiata e riempita di bolle gigantesche, era sempre più nera e il dolore era insopportabile. A quel punto mi portarono in sala operatoria per un intervento d’urgenza e, in tre lingue diverse e con l’aiuto del traduttore sul cellulare, i medici mi dissero di salutare i miei cari perché “non è detto che ti risveglierai, abbiamo poco tempo”.
Al telefono a mia madre ho detto solo “salutami tutti, vi amo tanto”. Poi ricordo che mi sono aggrappata al camice della dottoressa e urlando le dicevo “tu mi devi salvare, tagliami la gamba se serve ma io ho un bambino di tre anni che mi aspetta a casa. Non può morire la sua mamma”. Ricordo che ho dato il consenso per l’eventuale amputazione, poi ho chiuso gli occhi. Quando li ho riaperti non ho neanche guardato se c’era la gamba: c’ero io, ero viva».
La riabilitazione La gamba c’era ma Serena non era ancora fuori pericolo. Organizzato il trasferimento a Padova, nei mesi successivi la giovane ha affrontato un lungo percorso dentro e fuori dalla sala operatoria e dai reparti di riabilitazione.
Nel frattempo si è rimessa sui libri: lei, psicologa infantile con master, ha raggiunto la seconda laurea in Psicologia clinica allo Iusve di Mestre, ha concluso il primo anno della scuola di psicoterapia Aetos e ora si sta preparando per l’esame di Stato. Lo scorso autunno ha corso la maratona di Venezia sotto il diluvio, spinta in carrozzina, per poi percorrere a piedi gli ultimi metri prima del traguardo. Da allora ha affrontato molte altre corse pubbliche, servendosi anche di un paio di stampelle speciali dalla forma inconfondibile, indossando ogni volta una maglietta diversa con un messaggio diverso. «Se ti dicono che non si può, tu provaci» è l’ultimo, mostrato durante la Pretty Run di Rovigo la scorsa settimana.
Una vita difficile «In questi dieci mesi ho subito dieci interventi, anche di fascitomia, trattamenti in camera iperbarica, ricoveri. Non ho perso la gamba ma questa “mala suerte” mi ha completamente compromesso la mobilità e nonostante fisioterapie, interventi anche sperimentali, per ridarmi almeno la possibilità di camminare, al momento non posso muovermi senza carrozzina, stampelle e un tutore molto pesante e doloroso. Per un’atleta come me è davvero una grande sofferenza ma nonostante tutto sono determinata affinché la mia lotta quotidiana possa diventare speranza per le altre persone che stanno affrontando altre sfide. La vita è imprevedibilmente bastarda e ci toglie all’improvviso ciò che diamo per scontato. In ospedale incontro tante storie tante ferite diverse e mi rendo conto di quanto la malattia, il dolore fisico e la mancanza di un futuro decoroso cambi profondamente le persone. Spesso in questa battaglia siamo lasciati soli ma io voglio dimostrare che possiamo farcela». —
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