Sono otto, odiosi e americani Tarantino politico e western

Ultima inquadratura dell’ultimo film di Quentin Tarantino. La macchina da presa si eleva lentamente sopra i corpi di due uomini feriti, mentre un accenno di fanfara patriottica monta in sottofondo....
Di Marco Contino

Ultima inquadratura dell’ultimo film di Quentin Tarantino. La macchina da presa si eleva lentamente sopra i corpi di due uomini feriti, mentre un accenno di fanfara patriottica monta in sottofondo. Manca il vessillo americano sopra le loro teste: al suo posto penzola qualcos’altro, il (vero) simbolo di una nazione, il peccato originale che non si può mondare. È la scena, beffarda, che racchiude il senso e il significato di “The Hateful Eight”, il film più politico di Tarantino che non può fare a meno di certificare - come il documento che i cacciatori di teste portano nella loro tasca - l’origine violenta e razzista dell’America di oggi, quella innaffiata dal sangue della frontiera e della guerra civile, quella dei “Five points” di Scorsese e di “Bowling a Columbine” di Moore. Un Paese in cui convivono la candida innocenza delle distese di neve del Wyoming e il rosso vermiglio di fiotti di sangue, gli stessi che imbrattavano i fiori di cotone in “Django”.

Tarantino non la poteva raccontare meglio la “nascita di una nazione”, scegliendo un genere “primitivo” come il western, per elevarlo a parabola, a inno dissacrante di una realtà “minacciata da ogni parte dalle iniquità degli essere egoisti e dalla tirannia degli uomini malvagi” - come in Ezechiele 25-17 - in cui “i bastardi senza gloria” diventano otto (ne mancherebbero due per arrivare a “dieci piccoli indiani”, molto più di una suggestione, finale compreso) e sono odiosi, senza Dio, anche lui quasi coperto dalla neve all’inizio del film. Nella storia di canaglie sudiste, boia, cocchieri, sceriffi, criminali e uomini di legge (la loro più che quella delle tavole) che si ritrovano nel bel mezzo di una tormenta a condividere l’emporio di Minnie, rifugio isolato tra le montagne, il cinema di Tarantino scorre lento e fluido come la melassa, cita se stesso (“«Le iene”, ma un po’ tutta la filmografia del regista) e gli altri (dalla diligenza di “Ombre rosse” a “La cosa” con cui condivide uno dei protagonisti, il gelo e la paranoia) e si accende di lampi di genio, a partire dal formato panoramico della pellicola (che pochi fortunati potranno realmente testare, essendo rarissime le sale in grado di proiettare in 70 mm) che a Tarantino non serve per filmare i grandi spazi del Wyoming, quanto per dilatare il palcoscenico del suo teatro, pompando aria nei polmoni di un western definito e definitivo, con il solito, enorme, cast in cui si levano le voci soliste di Samuel L. Jackson e di Jennifer Jason Leigh, forza centripeta di un vortice che travolge persino Abramo Lincoln, come se non fosse mai esistito e la sua statura ridotta a scherno su un foglio di carta.

Durata: 167’. Voto: ****

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