Sotto la base Usa un villaggio neolitico

VICENZA. A Vicenza, mentre fuori dal perimetro della costruenda base americana infuriava l’opposizione No Dal Molin e si allineavano file di poliziotti con l’elmetto, altri elmetti ma bianchi rossi e...

VICENZA. A Vicenza, mentre fuori dal perimetro della costruenda base americana infuriava l’opposizione No Dal Molin e si allineavano file di poliziotti con l’elmetto, altri elmetti ma bianchi rossi e gialli punteggiavano all’interno una grande superficie: archeologi.

La Soprintendenza, nel 2009, ha imposto agli americani il rispetto delle procedure italiane, per cui prima di costruire si controlla che non vi siano vestigia archeologiche. E c’erano, eccome se c’erano. Di fronte all’affiorare della storia, anche l’esercito Usa si è fermato. Alla sua maniera: «Paghiamo tutto, ma sbrigatevi», e soprattutto segreto assoluto. Per due anni, fino al 2011, mentre intorno incrociavano gli escavatori e sorgevano gli edifici, l’area del previsto Building 18 è diventata un campo di scavo. Su 1760 metri quadrati si sono concentrate le indagini di “archeologia preventiva”, dirette in prima persona da Vincenzo Tiné, soprintendente del Veneto.

Lo scavo di due metri di profondità ha rivelato «una bella fetta di villaggio neolitico, il più grande mai scavato a nord del Po». Soprattutto buche: fosse, pozzetti, buchi di palo, canalette. Per esempio: undici fosse dal perimetro irregolare, piccole cave di argilla da cui si ricavava la materia per fare vasi e utensili. Poi 36 scavi circolari, diametro un metro, depositi di cibarie e derrate: trovati resti di gusci di nocciola e di altri frutti. Infine, 40 buche un po’ più grandi la cui funzione era quelle di raccogliere i rifiuti.

Siamo più o meno nel 5000 avanti Cristo, in una bella pianura, alla confluenza del Bacchiglione e il torrente Orolo. Il villaggio è una presenza importante, fatta di numerose capanne e di organizzazione sociale: si estendeva per un paio di ettari. Più importanti di tutti, i fori dei pali delle capanne. Solo in quei 1760 metri quadrati ne sono state censite parecchie, tutte orientate nello stesso senso. E, sorpresa, di due tipi: c’è quella già testimoniata altrove, in nord Italia, rettangolare, circa 5 metri per 3,5, con un patio prospicente. E c’è quella absidata, cioè con il fondo che si incurva verso l’esterno: appartiene a una tecnica costruttiva presente altrove, in Puglia per esempio, ma non qui. La curiosità è che i due tipi sono coevi.

Finora s’erano trovate capanne isolate - diciamo “fattorie” - ma non un insieme così numericamente cospicuo. Di più, sono emerse tracce per cui si trattava di «un insediamento diffuso ma caratterizzato da cellule autonome, con proprie strutture di stabulazione e produzione tipo compounds». Cioè: palizzate di divisione tra la capanna individuale (o le capanne dello stesso nucleo famigliare) con terreno privato dotato di recinti per gli animali o strutture produttive. Le capanne absidate sono probabilmente di poco posteriori a quelle rettangolari, e più numerose: è un cambio di architettura e non di cultura, i resti testimoniano lo stesso grado di evoluzione.

Insomma, la base americana, contestatissima ma realizzata, almeno è stata utile per l’archeologia. Gli americani hanno pagato tutta la campagna di scavi, quasi tre milioni di euro. Oggi lì sopra c’è una piscina,ma la documentazione emersa dal sottosuolo è preziosa: molti reperti (industrie ceramiche e litiche, resti di piante e animali, tracce dell’antico paesaggio neolitico) andranno studiati. Non si sono rilevate sepolture.

Ma non c’era solo il villaggio neolitico. La zona dev'essere stata sempre antropizzata. Sono stati individuati dieci pilastri di fondazione di un acquedotto romano. E c’era una grande villa romana: su un’area di 6500 metri quadrati, con una parte abitata e una produttiva. C’era un abbeveratoio lungo 32 metri, il che significa un cospicuo allevamento di ovini, e quindi industria della lana, di cui l’allora Vicetia era un centro importante. (p.c.)

Riproduzione riservata © Il Mattino di Padova