Torna “Il Doge” è di casa nostra il sigaro più antico

Si racconta che nel 1881, a Malaga, il neonato Pablo Picasso fosse cianotico e moribondo. Il medico presente al parto, colto da insolita ispirazione, si accese un sigaro e soffiò il fumo nelle narici del piccolo, che in un istante iniziò a strillare e a rivivere. Questo non significa che il fumo faccia bene, ma se quel sigaro fosse stato un puro Habano, rigorosamente fatto a mano, allora è probabile che il suo aroma abbia contribuito alla salvezza del futuro genio pittorico. Perchè la storia del tabacco è fatta di maledizioni e riabilitazioni, cacce alle streghe e miracoli. Non è un caso se tutto comincia attorno al 1492, quando Cristoforo Colombo osservò i rituali religiosi dei sacerdoti di Cuba che offrivano agli dei i fumi di una pianta chiamata “cohiba”, attraverso uno strumento a cannule, detto “tabaco”, che consentiva di inalarli. La pianta era considerata terapeutica, capace di curare infiammazioni della pelle e per assurdo, le infezioni delle vie respiratorie. Princìpi, reali o presunti, che condussero l'”erba regina” in Europa assieme ad altre meraviglie, come il pomodoro e la patata, il mais o il fagiolo, in quella che può essere considerata come la prima globalizzazione del mondo, alimentare e non solo.
Un viaggio che seguirono anche i monaci benedettini di Campese, lungo il corso della Brenta, a Bassano del Grappa, attorno al 1550, di ritorno dalle isole caraibiche, dove erano impegnati ad evangelizzare gli “indios”. Tornati a casa, nelle terre dell'allora Serenissima, portarono semi e foglie dell’Habanos, il “tabaco” che veniva masticato ed inalato, nella convinzione dei suoi poteri medicinali, compresa l'improbabile capacità di rafforzare la castità, secondo i dettami dei vertici ecclesiastici.
Sulle “masiere”, i terrazzamenti dei monti bassanesi, il tabacco cubano si adattò e crebbe, dando vita alla “pianta nostrana del Brenta”, riconosciuta storicamente come il primo tabacco italiano. Le sue vicende attraversano quelle della storia italiana, fra incoraggiamenti e divieti connessi alla coltura del tabacco, dai regolamenti imposti già dalla Repubblica veneziana, interessata a controllare la produzione delle preziose foglie, al monopolio di Stato voluto prima dalla monarchia e poi dalla Repubblica Italiana. Nella Valle della Brenta, spesso le quote consentite venivano “sforate”, perchè la sopravvivenza dei contadini, in tempo di guerra o di carestia, si fondava sul contrabbando e sulla produzione clandestina dei “pifferi della Brenta”, i sigari fatti a mano dalle “tabachine”. Al punto che la cultura popolare, dalle parti di Thiene, ricorda un proverbio secondo cui “le donne che andavano nel bassanese ritornavano in cinta”, alludendo al fatto che trine e sottogonne nascondevano proibiti fasci di foglie di tabacco. D’altronde, ancora nel 1950, a Campese e dintorni, dove si contavano poche migliaia di anime, le caserme della Guardia di Finanza erano sette e l’impegno maggiore era quello di controllare il peso ed il numero delle foglie dell’antico tabacco. Produzione che per alcuni decenni ha quasi dimenticato il sigaro originario, visto che il Consorzio Tabacchicoltori MonteGrappa, obbedendo alle esigenze del mercato, conferiva le sue foglie alle multinazionali delle “bionde”, le sigarette. Quando sono finiti i sovvenzionamenti europei, l’attività è diventata poco conveniente. Il tabacco storico è stato rivalutato una decina di anni fa, riscoprendone le potenzialità, in un progetto che ha coinvolto le Manifatture Sigaro Toscano del Gruppo Maccaferri, che da tempo opera per valorizzare le terre vocate alla coltivazione del tabacco. La produzione, completamente artigianale, ripropone il vecchio sigaro conico della Valle del Brenta, denominato “Il Doge”, con le tabacchine che toccano il manufatto almeno dieci volte, per un blend stagionato tre anni con fermentazione in foglia.Un autoctono che ha il cuore caraibico ed il corpo veneto, perchè il tabacco è della famiglia Habanos, viene essiccato all’aria, escludendo i forni, e la sua preparazione prevede ripieno, sottofascia e fascia. Proprio come i cubani, visto che anche il noto Toscano è preparato con tabacco Kentucky americano e non prevede la sottofascia. Un “cru” italiano, forse l’unico che potrebbe competere con i suoi nobili progenitori caraibici.
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