Un grande vignettista cronista quasi per caso

I pannelli dietro la sua scrivania in redazione li aveva trasformati in murales È stato uno dei cantori più appassionati del vecchio Appiani, che amava
Di Gianfranco Natoli

di GIANFRANCO NATOLI

Uno slogan pubblicitario di qualche anno fa sosteneva che nella vita solo due cose non si possono cambiare: la mamma e la squadra del cuore. Furio Stella per tanti anni ha lottato contro questa ineluttabile verità, riuscendo alla fine a trovare un equilibrio interiore che vacillava solo in rare occasioni, cioè quando inesorabilmente sbatteva il muso nel suo annuale dramma personale, in Triestina-Padova. È riuscito a restare fedele ad entrambe fino alla morte.

Per carità, non era un grande giornalista, Furio. Niente a che vedere con i Biagi, i Montanelli, i Bocca. Era un ottimo giornalista, questo sì, di quelli onesti, coerenti, merce rara oggi. Piuttosto era un grande uomo che uno strano gioco del destino ha portato a fare il giornalista. Lui alla scrittura è arrivato per caso. Quando nel 1978 ha preso il mio posto accanto a Giancarlo Rinaldini, altro grande giornalista che ci ha lasciato già da qualche anno, a capo dei collaboratori del mattino, tutto voleva fare meno che scrivere articoli.

Era un grande vignettista, Furio, questo è certo, e il giornalismo italiano ha la grande colpa di averci privato di un genio, rimasto nel limbo della stretta cerchia degli amici più fidati. Quando ha capito che mai lo avrebbero assunto come commentatore attraverso i segni, ha scelto di fare il cronista sportivo, infarcendo il mestiere di un suo personale umore disincantato, spesso spinto sull’orlo dell’irriverenza. Ha cantato le glorie, le disgrazie, i momenti belli e quelli brutti, soprattutto del Calcio Padova, cercando però di restare sempre osservatore neutrale, anche quando le emozioni avrebbero trascinato tutti nella polemica. Ci è sempre riuscito. Senza mai urlare, senza mai uscire da quello stile di triestino da sempre abituato a convivere con la bora e con il miscuglio delle razze.

Noi, allora giovani e oggi vecchi, l’abbiamo accompagnato in quest’avventura iniziata alla fine degli anni Settanta e proseguita fino a oggi sapendo bene quanto avrebbe potuto dare, rammaricandoci spesso per quegli schizzi che gli uscivano all’improvviso, diventando così dei manifesti maliziosi, irriverenti, pungenti, mai banali. E quando avevi la fortuna di essere uno dei destinatari del suo lazzo, ti appropriavi della vignetta come una sorta di reliquia da condividere, mai da spartire. I pannelli dietro alla sua scrivania li aveva trasformati in tanti murales simbolo della sua personalità, usando l’ironia senza risparmiare nessuno, neppure se stesso, soprattutto se stesso. La sua foto alle spalle di Maradona è stata così graffiata da un the pusher, scanzonato, mai cattivo.

Furio, però, è stato anche molte altre cose. Testardo coltivatore di presunti talenti, di collaboratori che con pazienza cercava di avviare al giornalismo rispettoso. Ha faticato in questo, e anche quando la pochezza del materiale umano era evidente, lui non ha mai mollato. In molti dovrebbero essergli grati per questo. Il Furio che ci mancherà è tuttavia un altro. È l’uomo, l’amico, il complice e compagno di giochi, fantastico interprete di un mestiere vissuto con rigore, serietà e leggerezza, nella consapevolezza di non barare mai, neppure quando il cuore avrebbe potuto guidarlo verso l’irragionevolezza.

Ci mancherai, Furio. Ci mancherà la tua follìa, il tuo saper parlare con gli stadi, con l’Appiani di cui sei stato uno dei cantori più appassionati, uno degli amanti più fedeli. Hai saputo mischiare l’ironia all’austerità, l’umorismo alla severità, la satira alla serietà, frullando le parole con semplicità, riuscendo a trasformare anche la scrittura in una vignetta. Come quelle che di getto tiravi fuori dal genio della tua imbarazzante normalità.

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