Ustica, 36 anni fa: il dolore della famiglia Lachina di Montegrotto

PADOVA. Quei cento chilometri, o poco più, che sono stati molto più di cento passi in questa storia cominciata tra Montegrotto e Bologna, un pomeriggio di 36 anni fa, e che non è ancora finita. Non riesce a finire. Perché Ustica è così: un moloch di rabbia e disperazione in cui si entra, e da cui non si esce più. Lachina Giuseppe e Reina Giulia, come figuravano nel freddo elenco compilato dalle autorità insieme alle altre 79 vittime della strage, su quel volo IH870 ci sono finiti dentro per diverse incredibili coincidenze, come a volte accade: quando si dice il Caso. E adesso, oggi, che si celebra l’ennesimo anniversario alla ricerca della verità, o meglio la parte di verità che riguarda la targa dell’aereo che ha abbattuto il Dc9 Itavia, colpito oltre ogni ragionevole dubbio (ci sono voluti cinque lustri, per arrivarci) da un missile, sono rimasti i quattro figli, ormai quattro adulti che a loro volta hanno creato le loro famiglie e tramandato, come un doloroso segreto, il pensiero fisso per quel volo spezzato alle 21 di un giugno di tanti anni fa.
ELISABETTA, LA FIGLIA “Ci siamo trovati come quattro bambini persi nel bosco”, sintetizza Elisabetta, che insieme a Ivano, Riccardo e Linda è diventata suo malgrado superstite della tragedia. E’ lei, in viaggio verso un programma di celebrazioni per non perdere la memoria, che riannoda i fili di una storia che lei definisce “devastante, chi non l’ha provato non può capire”. La attende, per l’ennesima volta, un incontro con gli altri familiari delle vittime che a loro volta, tutti quanti, sono diventati una grande famiglia accomunata dalla rabbia e dall’amarezza: “Quando li rivedo, anche solo una volta all’anno in queste occasioni, mi vedo allo specchio nei loro visi e nelle loro rughe, per il dolore e per le brutture che abbiamo dovuto passare e che ci hanno segnato”.

LA FAMIGLIA La storia di Giuseppe, per tutti Pino, e Giulia, arrivati nel padovano da Genova nel ’56, risaliti dalla Sicilia e via Genova. L’attività del padre che nel 1979 era già fotografo molto conosciuto in zona, “non c’era un turista di quelli venuti ad Abano che non avesse una foto scattata da lui”, e si era inventato anche una televisione, Tele Abano Montegrotto, che poi con gli anni è cresciuta fino a diventare l’attuale Telecittà. “Mio padre era uno di quelli che se si guardava indietro guardava il futuro: già allora l’emittente trasmetteva in tedesco, francese e italiano, aveva immaginato uno strumento al servizio del turismo in zona”, lo descrive Elisabetta che ha una figlia, ormai grande, che da quando ha capito cosa è successo quella notte di tanti anni fa ai nonni, non vuole più mettere piede su un aereo: “Mia figlia è una figlia di Ustica, ha pagato anche lei questa storia”.
Giuseppe, anche, che era una marinaio imbarcato sull’Andrea Doria e improvvisamente, l’8 settembre, fu costretto a tornare a casa a piedi, da Trieste a Caltanissetta, attraverso un’Italia divisa e lacerata. Quel viaggio da nord a sud che poi aveva già fatto tante volte, negli anni, con la moglie e coi figli, per andare a trovare la mamma e i familiari. Quel volo da Bologna a Punta Raisi che era un’abitudine, per la famiglia Lachina. Più volte l’anno, tutti gli anni. Lo avrebbero dovuto prendere una settimana dopo quel maledetto 27 giugno 1980, era già tutto pronto: per la piccola Linda sarebbe stato il premio per l’anno scolastico, per loro un po’ di vacanze all’inizio dell’estate.
SLIDING DOORS Ma come nel film “Sliding doors”, ci sono porte dove si passa, ci si incrocia, e i destini possono essere anche molto diversi. Tragicamente opposti. Questa è una di quelle porte. Perché alle sette di mattina di quel 27 giugno, come faceva tutte le mattina, Giuseppe chiama la madre in Sicilia. “C’è qui tuo cugino, quello che vive in Australia, ma non resterà molti giorni”. Pino lo vuole vedere anche per parlare di progetti e decide di partire in giornata per l’isola, anticipando di sette giorni il volo da Bologna a Punta Raisi. Giulia, la moglie, non si aspetta il cambiamento di programma, non parte volentieri e anzi dice ad un’amica, “come una specie di segno premonitore, nonostante tutte le volte che aveva preso quel volo” ricorda Elisabetta, “se succede qualcosa, prenditi cura dei miei figli”.
La prende ancora peggio la piccola Linda che si chiude in camera e non vuole salutare i genitori: “Quella notte, quando aspettavamo loro notizie, si è poi seduta con noi al tavolo e non ha detto una parola fino all’alba”. Giuseppe e Giulia partono nel pomeriggio verso Bologna, percorrono quei cento chilometri o poco più fino al Marconi. Non hanno i biglietti, ma sperano di trovarli per qualche rinuncia dell’ultimo momento. “Se non troviamo posto da Bologna, proveremo su qualche volo da Firenze o Roma” dice Pino al telefono ad Elisabetta, l’ultima volta che ha parlato con suo padre e ha sentito la sua voce.
Da lì in poi cala il silenzio, che col passare delle ore diventa attesa e poi ansia, preoccupazione. Paura. Quando, verso le 23 di sera, Elisabetta riceve le telefonate da Genova e da Caltanissetta, la nonna materna e quella paterna che volevano sapere se i loro figli, i genitori di Elisabetta, fossero su quell’aereo scomparso di cui si parlava già alla tv, “e nelle prime ore si parlava anche di tre ore di autonomia, non sapevamo davvero cosa pensare. Mi chiamarono dicendo accendi la televisione e guarda cosa è successo, ma io risposi a tutte e due sono partiti da cinque minuti, per non farle preoccupare troppo”.
Nessuno sapeva, nemmeno Giuseppe e Giulia fossero a bordo. “Chiamai tutti gli aereoporti: Bologna, Firenze e Roma. Nessuno mi rispose. Chiamai anche i carabinieri”, ricorda Elisabetta, che improvvisamente, in una notte di giugno di 36 anni fa, da figlia divenne madre e capofamiglia per i suoi fratelli. Riccardo, il secondogenito, rientra a casa prima di mezzanotte ed Elisabetta è costretta a dirgli che i loro genitori erano spariti. Che c’era la possibilità, purtroppo, che fossero sulla lista passeggeri del volo India Hotel 870, come si dice nel gergo dell’aeronautica.
Il fratello prende la macchina, arriva a Bologna e chiama Elisabetta: “Ho visto la macchina dei nostri genitori nel parcheggio, torno a casa”. Le possibilità che Giuseppe e Giulia siano riusciti a trovare posto nella lista passeggeri aumentano, e in effetti ci furono alcune rinunce che permisero in extremis ai coniugi Lachina di salire sulla scaletta dell’aereo pilotato dal comandante Gatti: il portellone del Dc9, appunto, fu una “Sliding door” che ha condannato loro e salvato altre due persone ignare.
Col passare delle ore, nella casa di Montegrotto, aumentano le paure e combattono con le speranze, perché potrebbero anche aver proseguito da altri punti il loro viaggio. Nessuno però chiama casa Lachina, e da casa Lachina non è possibile parlare con nessuno. “Siamo rimasti seduti fino alle 5 aspettando di capire, cercando risposte. Ma non abbiamo mai ricevuto chiamate dalle istituzioni o dalle autorità. Nessuno ci ha mai ufficialmente detto che i nostri genitori erano su quel volo per Punta Raisi”.
Il giorno dopo, dopo la verità che è piombata su di loro come uno tsunami, la partenza di Riccardo verso Palermo, per il terribile compito del riconoscimento delle salme. Raggiunto dal fratello Ivano che era in vacanza con la moglie in Calabria e all’epoca, senza i cellulari che adesso rendono tutto facile, fu rintracciato dopo diverse ore, aggiungendo sgomento a sgomento (è stato poi, negli anni, uno dei fondatori della Città della Speranza di Padova). Tutto, in fondo, è rimasto fermo a quella notte per Elisabetta che ha cercato di scappare da quel 27 giugno come una guerra persa senza poter combattere. “Ho cercato più volte di cancellare quel giorno, ma non ci sono riuscita. Lo sa cosa mi riporta sempre indietro, anche se non voglio? La luce particolare che c’è in questo periodo dell’anno, tra fine giugno e inizi di luglio. Quel bagliore che si vede in cielo verso le 21”.
L'ULTIMO CONTATTO Ossia esattamente nel momento dell’ultimo contatto del Dc9 con gli operatori del traffico aereo: le 20.59 del 27 giugno 1980, la data da scrivere sulla lapide che ogni familiare come Elisabetta Lachina si porta dentro col suo peso marmoreo. “Abbiamo già avuto una parte di verità, ma manca ancora il nome del colpevole. Di chi ha sparato quel missile. Per me, però, sono tutti colpevoli. Adesso ormai lo posso dire. Perché se ci sono cinque persone che fanno una rapina e si dividono i compiti tra chi guida la macchina, chi fa il palo e chi entra con le pistole, non c’è differenza tra di loro. Sono tutti rapinatori”.
Anche perché non tutti, non sempre, capiscono come sia profondo e nero questo tunnel: “Mi fanno soffrire quelli che incontro e mi dicono maddai, ormai basta dopo tanti anni. Oppure quelli che, ancora peggio, mi dicono ma i soldi dei risarcimenti li avete avuti, no? Dovrebbero guardarmi nel profondo degli occhi, per capire cosa abbiamo dentro noi familiari delle vittime”. Certo, ci sono poi anche quelli che conoscono i rapinatori, o che li hanno visti, e non lo raccontano: “Certo, io sono molto arrabbiata anche con chi sa e ha taciuto, mi ero illusa forse che la verità venisse fuori quando parlò Cossiga, quando è morto Andreotti anche, chissà perché. E perfino quando è stato deposto Gheddafi, speravo che uscissero i segreti che si era portato nella tomba. Ecco, io non ho perso la speranza che qualcuno si decida a parlare, prima di portarsi via per sempre quello che vogliamo sapere”.
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