Bruno Munari il segreto dell’arte è tra terra e aria
A Cittadella un’esposizione che indaga il suo lato più utopistico e sperimentale

Se c’è un artista del Novecento che ha preso sul serio l’ipotesi ventilata negli anni Sessanta di una democrazia dell’arte, ben presto seppellita da una formidabile ripresa dell’individualismo, quello è stato Bruno Munari. Nessuno meglio di lui ha sviluppato ricerca sulle rive dell’astrattismo e, al contempo, sulla dimensione pedagogica della libertà creativa. Figlio della vocazione razionalista del futurismo, di quel dinamismo analitico riconducibile a Balla, sapeva estrarre fermenti ludici da una processualità rigorosa e consapevolezza dal gioco. Munari è ben noto e celebrato come artista e designer che ha saputo combinare arte programmata e bizzarrie dadaiste. Ma la mostra in corso sino al 5 novembre a Palazzo Pretorio di Cittadella ne indaga il lato più utopistico, un versante del lavoro d’artista cui teneva in modo particolare perché metteva in scena la prediletta tra le sue provocazioni: l’uso diretto, condiviso, sensoriale oltre che intellettuale, delle scoperte dell’arte.
S’intitola Bruno “Munari. Aria-Terra” ed è curata da Guido Bartorelli (catalogo Corraini). Il sottotitolo specifica due elementi che polarizzano un bacino mirato di sperimentazioni: l’aria è luce, spazio, leggerezza, volo, fantasia; la terra è gravità, materia, quotidianità, è il regno del fare che va dalla normalità domestica alla progettazione industriale e include la stimolazione della creatività di ciascuno. La mostra inizia con le stanze dell’aria precedute da un raro filmato Tempo nel tempo del 1964 della durata di tre minuti che riprende il salto mortale di un atleta e ne dilata la durata tramite l’uso del “microscopio temporale”. Oltre mezzo secolo fa la cosa era magica, sorprendente. Dimostrava la perfetta compenetrazione degli opposti: la leggerezza e la gravità, la perfezione del corpo umano e le prodezze della tecnologia. L’aria non è il vuoto, come nel Salto di Yves Klein, ma è sostanza eterica, parte del cielo, spazio che accoglie.
Altre sale ospitano opere costruite su reticoli di corde sottili, bilanciate da minimi pesi, forme di geometria aerea, armonie di tensioni come la serie Filipesi. Su questo registro si colloca la celebre lampada Falkland, figlia degenere quanto felice della calza di nylon. Di una semplicità disarmante, a fronte di una ineffabile qualità estetica, è Concavo/Convesso: un foglio sottile di rete voltato secondo una regia matematica che, tuttavia, non si sottrae alle interferenze del caso. Ne sono nate opere volatili, appese al soffitto, adatte ad ogni tipo di locale; opere che l’aria e i giochi di luce-ombra provvederanno a mutare di continuo. Le antenate di queste invenzioni furono le Macchine inutili degli anni Trenta e Quaranta, disegnate nel vuoto, suscettibili ai minimi spostamenti dell’aria. All’insegna del “fai da te”, in controtendenza rispetto al quadro d’autore, Munari confezionò negli anni Cinquanta, un kit di diapositive, con pezzetti di piume, foglie, fili colorati, cotone, retini, da proiettare sulle pareti. Una festa di colori e variazioni informali che accende l’anima della casa e che, ancor oggi, sorprende ed emoziona. In mostra anche la documentazione di due happening storici che rievocano quegli anni carichi di fermenti e ne riprendono i protagonisti, artisti e intellettuali, che accorsero all’appuntamento creato da Munari per Ufo del 1968 e per Aria (Far vedere l’aria) del 1969: il filmato porta la firma di Gianfranco Brebbia, la serie fotografica quella di Ugo Mulas. Derivano dalle Macchine inutili anche due interventi urbani che Munari realizzò in provincia di Cosenza: una Stazione meteorologica per indicare nome e direzione del vento, collocata sopra una scuola elementare a Rende, e Giocattolo per il vento a Rossano: un traliccio di 20 metri con una varietà multicolore di anemometri che creano un gioco continuo di combinazioni cinetiche.
Scendere sulla Terra significa per Munari innanzitutto progettare oggetti di design per la casa a prezzi accessibili. Incominciò con Posacenere cubico disegnato per Danese nel 1957. L’estetica non deve rinunciare al meglio delle sue possibilità progettuali per diventare alla portata di tutti. Munari designer è ben conosciuto: lampade, sedie, tavoli, oggetti d’uso, invenzioni paradossali come Abitacolo per sentirsi ovunque come a casa e giocattoli come la celeberrima scimmietta Zizi (1954). E poi molta, felice e impegnata didattica. I suoi laboratori sono parchi giochi per la mente e per i sensi, per bambini e per adulti. A Palazzo Pretorio sono quattro, perfettamente ambientati e praticabili: La strada dei sassi, Lascia la tua impronta, Il gioco del filo di lana blu, Giochi di luce. Ogni laboratorio prevede una partecipazione attiva: si osservano, combinano e catalogano liberamente i sassi; si lasciano impronte con qualsiasi oggetto su pani d’argilla lavorato a piacimento; si fotocopiano fili di materie diverse, sospesi, in caduta, tesi e a serpentina che si candidano a diventare motivi decorativi o animali di fantasia; si gioca con una pila al buio proiettando su pareti bianche per scoprire gli effetti del movimento, della varietà di filtri improvvisati e di ostacoli costituiti da oggetti o anche persone. Alla fine tutto rimane in loco, suscettibile a nuovi esiti di altrui esperienze: nessun ricordo-feticcio da incorniciare. I presupposti di no-profit artistico sono mantenuti fino in fondo e i laboratori rappresentano l’“opera” più coerente e generosa. Munari aveva qualcosa del folletto dei boschi, un po’ Puck e un po’ Robin, quello che aiuta divertendosi e facendo divertire combinando arguzia, innocenza e sagacia. Aiuta a far crescere le antenne della percezione di sé e del mondo e a far capire di che pasta è fatta l’arte quando i suoi preziosi segreti diventano giochi.
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