Capanna, il ’68 e il baratro dell’individualismo

Il suo nome è legato indissolubilmente al ’68, anche se Mario Capanna negli anni ha fatto il politico, lo scrittore, e persino l’apicoltore e l’olivicoltore («Col mio olio ho anche vinto premi importanti», ci tiene a dire): logico dunque che a cinquant’anni dagli eventi che rivoluzionarono la politica e il costume in buona parte del mondo il 73enne attivista sia di nuovo sulla cresta dell’onda, con un libro appena pubblicato che prende spunto da ciò che accadde in quegli anni per parlare del presente (“Noi tutti”, ed. Garzanti, 16 euro), e con decine di conferenze in tutta Italia.
Sorprende semmai che a inaugurare le rievocazioni nel Veneto sia un’associazione considerata piuttosto paludata come il Rotary, anche se Tiziana Agostini (presidente del club mestrino che con quello di Mestre Torre organizza l’incontro pubblico, che si svolgerà oggi alle 18,30 all’Hotel Bologna a Mestre, con l’introduzione di Giuseppe Sacco e la presenza di Massimo Donà) ricorda che l’organizzazione in quegli anni fu particolarmente sensibile nel cogliere i fermenti che si muovevano nella società. Alla successiva cena conviviale parteciperanno e Alvise Fariva, il Past Governatore già attivo nel Rotary nel ’68, e il suo successore Massimo Ballotta.
Quale istantanea meglio definisce, nel ricordo di Capanna, gli eventi di quegli anni? «Ha presente la contestazione alla Scala di Milano, la sera del 7 dicembre? Il Movimento studentesco accolse il pubblico della Prima con un fitto lancio di uova. Ho ancora impressa nella mente l’immagine di un ragazzo che issava un cartello con la scritta “I braccianti di Avola vi augurano buon divertimento”: pochi giorni prima nel centro siciliano due braccianti erano stati uccisi dalla polizia in una manifestazione. Ecco, quella per me è l’immagine che meglio esprime lo spirito del ’68».
Di quello spirito sono ancora intrisi i pensieri e i comportamenti di Capanna, al di là del “vezzo” di non usare il cellulare («Una delle invenzioni più perniciose della modernità: ormai ci viviamo appesi, anche in bagno»): lo si evince dai contenuti del libro, che è una lettera aperta ai sette miliardi di persone che vivono sulla terra per convincerli che la strada su cui ci siamo incamminati ci porta al disastro, e spingerli a riprendere in mano il proprio destino, come accadde proprio 50 anni fa.
«Tutti i problemi, da allora si sono aggravati: un miliardo di persone è privo di acqua potabile, un altro miliardo ignora le cure mediche e non ha l’energia elettrica, per non parlare dei disastri ambientali e del riscaldamento globale che rischiano di portare l’umanità alla catastrofe. In tutto questo l’Occidente ha precise responsabilità, col colonialismo e le guerre: e come non dar ragione al Papa quanto ricorda che chiunque viva in quelle condizioni è spinto ad emigrare? Da tutto questo possiamo uscire solo se cominciamo a pensarci come componenti di un’unica famiglia umana, e insieme riattiviamo dei processi di riflessione critica che mettano in discussione alla radice i comportamenti sbagliati che ci hanno portato fin qui».
In realtà però le elezioni rivelano che oggi gli individui e le comunità locali cercano di salvarsi da soli, ignorando le istanze di maggior equità sociale e premiando piuttosto le parole d’ordine delle destre. «Questa è la grande vittoria dei poteri dominanti: tutti i meccanismi mediatici ed economici convergono a irrobustire questa situazione di isolamento individuale, ideale per il potere, che atomizzando i propri sudditi li rende incapaci di reazione. Ma ormai si sta arrivando al fondo del barile, con la crescita di un precariato mondiale formato da centinaia di milioni di disperati, che si stanno rendendo conto della loro situazione e cercano la strada per uscirne».
Ma perché i ceti più poveri si rivolgono ai populisti piuttosto che alla sinistra, che sarebbe deputata a lottare contro le disuguaglianze? «È ovvio» dice Capanna «se quella che si definiva sinistra diventa garante dei meccanismi della globlalizzazone, che fa arricchire l’1% della popolazione contro il 99% restante. Per forza i poveri si rivolgono ai demagoghi, che dicono loro “dammi il tuo voto, che ci penso io ai tuoi problemi”, sollevandoli anche dalla fatica quotidiana della democrazia; ma le cose cambiano solo quando alla delega rassegnata si sostituisce l’impegno diretto delle persone».
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