Colpi di cannone su Asiago la tragedia dell’altopiano

di Francesco Jori
È la mattina di lunedì 15 maggio 1916, quando un enorme proiettile lungo 1 metro e 60, contenente 193 chilogrammi di polvere da sparo, cade poco a nord del duomo di Asiago, senza fare vittime. A esploderlo è stato un potente cannone uscito un anno prima, nel maggio 1915, dalle officine della Skoda, lungo 16 metri e in grado di sparare fino a 31 chilometri di distanza. La sua denominazione ufficiale è Langrohrkanone 35-45, ma gli italiani lo ribattezzeranno “il Lungo Giorgio”.
Il primo colpo verso le linee italiane parte alle 7.15 da Calceranica, in Trentino, sul lago di Caldonazzo, e con un volo di 24 chilometri raggiunge Asiago trenta secondi dopo. Mezzora dopo un secondo colpo si abbatte su piazzetta Pertile, uccidendo una madre e un bambino. È solo l’inizio di un bombardamento che investe l’intera zona tra Roana e Gallio. Asiago brucia per tre giorni.
Annota don Francesco Caron, parroco di Gallio: “Esterrefatti dal dolore, come un gregge disperso per lo scoppio di un fulmine, tutti cercano gridando salvezza, correndo qua e là all’impazzata”. Quando, alla fine della guerra, rientrerà in paese da Albettone, dov’è sfollato, scriverà con amarezza: “Non trovai più Gallio… in piedi, piangendo, mi cibai non senza sforzo d’un po’ di pane, e coll’animo straziato, con un nodo che mi serrava la gola, ritornai sui miei passi”. Il paese è andato letteralmente distrutto il 29 giugno successivo, durante la ritirata austriaca; il campanile è stato tra i primi a crollare.
Lo scontro frontale mette in moto un gigantesco esodo dall’altopiano: è una massa di 20mila persone quella costretta a lasciare le proprie case, trovando rifugio in larga parte sui Colli Berici e nella Bassa vicentina. Ma in alcuni casi si verifica una vera e propria diaspora: gli abitanti di Cogollo del Cengio si trovano dispersi in ben dieci province diverse. E anche dove si insediano, la vita non è facile a causa di una sorta di guerra tra poveri, venendo mal visti dagli abitanti.
Don Giuseppe Busato, parroco di Arsiero, riferisce di mamme del posto che minacciano i propri figli: se fai il cattivo, ti faccio mangiare dai profughi. Ma la vita continua, malgrado tutto: il 26 maggio 1916, il giorno dopo l’arrivo delle famiglie in fuga, in una di esse nasce la prima bimba profuga, Ada Domenica Carli. C’è anche chi si trova spedito a centinaia di chilometri di distanza: come quelli che il 27 maggio finiscono ad Angera, in provincia di Varese, peraltro accolti in questo caso con grande trasporto e solidarietà: c’è chi mette a disposizione un alloggio, chi soldi, chi materiali di prima necessità come vestiti e mobili. Anche qui pochi giorni dopo nasce un bambino, Alfredo Anglerio; al battesimo, gli fa da padrino il sindaco Cesare Contini.
Un capitolo, questo lombardo, ben conosciuto da Mario Rigoni Stern, che in un’intervista del 1986 ricorderà: “I nostri compaesani che giunsero profughi nel Circondario di Varese tra il 1916 e il 1917 hanno conservato nel cuore, e conservano, un grato e profondo ricordo verso quella popolazione, dove trovarono affetto, aiuto, comprensione. E anche lavoro. Queste cose, purtroppo, non avvennero in altri luoghi d’Italia perché i nostri anziani sapevano solo parlare cimbro”.
Per chi rimane sull’altopiano a combattere, l’esperienza è delle più dure. La strafexpedition nemica e la controffensiva italiana provocano tra le nostre truppe oltre 100 mila feriti, più di metà dei quali da arma da fuoco o da schegge, con punte massime di più di 20 mila in giugno e altrettanti in luglio; gli altri sono ammalati, con picco di quasi 25 mila in luglio.
Le strutture sanitarie sono impegnate allo stremo: un caso fra tanti, l’ospedaletto da campo numero 08 del X corpo d’Armata, allestito ad Arsiero, e specializzato sul versante chirurgico e su quello traumatologico. Si deve lavorare in condizioni precarie, come ben documenta una dettagliata relazione relativa al periodo 16 maggio-30 novembre 1916: per la disinfezione pre e post operatoria si impiegano garze con tintura di jodio e soluzioni di acqua e alcol puro; le anestesie vengono effettuate in narcosi con etere e cloroformio, ma in qualche caso si utilizza anche quella spinale; per quelle locali si ricorre alla Novocaina. E tuttavia i risultati sono più che validi: su 25 casi di interventi al torace, solo in cinque non si riesce a salvare la vita al paziente. Più pesante il bilancio delle lesioni addominali: 18 morti su 26 operati.
La cosa peraltro si spiega: sono pochi in genere, durante la guerra, i chirurghi di tutti i Paesi impegnati nel conflitto a eseguire quel tipo di interventi, in quanto i feriti vengono dati per perduti a causa del grave choc tossico causato dalla perforazione dei visceri, e c’è stata in ogni caso un’elevata perdita di sangue (all’epoca, al fronte le trasfusioni non sono ancora praticate).
Su questo piano, gli italiani sono pionieristici, e cercano comunque di salvare la vita ai soldati colpiti; con risultati decisamente validi anche quando le situazioni sembrano disperate.
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