Da Cristo all’uomo, la bellezza nella sofferenza

di Virginia Baradel
Il tema del dolore è oggi di grande attualità, anche per la medicina.
Nessuno si sogna più di ignorarlo o sottovalutarlo laddove inesorabilmente esso s’annida: il corpo umano. Il dolore è passato da una collateralità a malapena considerata, a una centralità che lo tiene da conto alla stregua di una malattia. Nell’ambito della rappresentazione artistica ha trovato, nel tempo, debita sede nei linguaggi figurativi. Ma bisogna capire, prima di tutto, di che dolore si tratta, se di algos o di pathos, se dolore fisico oppure sofferenza, concetto che si dispiega entro uno spettro semantico infinitamente più esteso entrando nei meandri dell’anima.
È possibile tuttavia mantenere una stretta prossimità all’esperienza sensibile e indagare il dolore nell’arte rimanendo nei paraggi del corpo dolente. Sappiamo bene che le due sfere non sono scindibili, non si può dire qui finisce l’una e incomincia l’altra, ma tenerle separate è un artificio utile per aggredire la complessità del tema e cogliere una dimensione che non ha goduto di grande fortuna, se non in stagioni artistiche di spiccato realismo. Il soggetto che ha introdotto nell’arte l’argomento e ne ha popolato la storia, è il vir dolorum per eccellenza, Cristo, e la madre sua dolorosissima. La Passione di Cristo ha portato violentemente in scena il dolore fisico, sin dal sorgere del Cristianesimo; anche se è solo con il realismo giottesco che si manifesta, trova espressione umana sia nella figura di Cristo, che nel gruppo di Maria e i discepoli ai piedi della Croce. In Giotto l’intenso e schematico espressionismo del Medioevo si trasforma in aderenza figurativa e narrativa ai Vangeli. I suoi angeli piangono di un umanissimo e straziante dolore. Cristo muore per le torture cui è stato sottoposto: nella Crocifissione del Masaccio, oggi a Capodimonte, la testa è incassata nel torace a mostrare l’agonia del soffocamento. L’Umanesimo adotterà la fedeltà al dettato descrittivo, ma il naturalismo lo nobiliterà attraverso l’armonia dei canoni classici. Il grido sordo del dolore non intacca la perfezione anatomica ma si manifesta attraverso la tremenda contrattura dei muscoli di un corpo crocifisso. Eppure il sangue non c’è. Nelle flagellazioni che, con gli uncini ai capi delle strisce di cuoio, avrebbero dovuto ricoprire di sangue corpo e pavimento, il dramma è reso attraverso le posture del corpo di Cristo e l’impeto dei carnefici. È il realismo dell’arte tedesca che arriva a cogliere lo strazio della tortura fisica.
Le Crocifissioni di Matthias Grünewald sono un sublime documento, oltre che una sacra rappresentazione. Così la tradizione delle Vesperbilder, le pietà tedesche, che sono espressione acuta, lacerante del dolore di Maria. Il tema del Compianto troverà ampia eco e molte versioni, non ultima l’enfasi teatrale della disperazione nei gruppi di terrecotte a grandezza naturale di Niccolò dell’Arca o di Guido Mazzoni che riecheggiano le messe in scena popolari dei Misteri e dei presepi pasquali che stanno tornando di moda.
Se Cristo detiene la titolarità del dolore nell’arte nei secoli passati, nel Novecento è l’uomo normale, senza stimmate e senza qualità a prendere la scena. Lo scempio dei corpi all’indomani della grande guerra diventa repertorio per gli artisti della Nuova Oggettività tedesca. Di ritorno dall’inferno dei campi di battaglia le città diventano lazzaretti: corpi dolenti e sfasciati vengono ostentati senza pudore. Il dolore morde la carne, stravolge i connotati, toglie la pelle. La Kenosis di San Paolo (lo svuotamento della divinità di Cristo nell’incarnazione), diventa spoliazione dell’umanità nel povero cristo, martoriato su questa terra ostile. Ciò avviene a causa di aggressioni alla vita stessa, con violenze di ogni tipo, oppure di spietate autoanalisi, rispecchiamenti interiori che scorticano anima e corpo senza pudore. Celebri esempi del primo tipo sono Otto Dix e George Grosz; del secondo Egon Schiele. Sul terreno della Kenosis individuale molti si strapperanno la pelle: ritratti e autoritratti stravolti e macerati saranno la parte in ombra della retorica classicista e sbocceranno ampiamente nel secondo dopoguerra. Un nome fra tutti, Francis Bacon e a quel punto sarà l’anima a percuotere la figura sino a strapparle l’atroce urlo di un dolore senza rimedio. Tuttavia il primato del corpo martoriato ha il suo vertice in Frida Kahlo: è lei a tenere il vanto della questione e ad averne ampia legittimazione biografica. Lo strazio di un corpo di giovane donna maciullato dal tram diventerà il trofeo di una struggente antigrazia che trascorre direttamente dal dolore privato, inciso nella carne, alla sfrontata evidenza della verità come manifesto di un’arte di riscatto.
Infine saranno le neoavanguardie ad abbracciare il dolore fisico come poetica: la Body art e soprattutto l’Azionismo viennese ne faranno un test di esistenza contro la narcosi consumistica. Erano i tempi dell’Uomo a una dimensione di Herbert Marcuse. Oggi la sovraesposizione del dolore, inflitto e provato, è materia visiva costante, dentro e fuori dell’arte. Hanno inventato un modo per renderla indigesta gli Young British Artists, pensiamo a Jake &Dinos Chapman o a Marc Quinn. Jan Fabre ha rifatto la Pietà di Michelangelo: si è scolpito in grembo a Maria in tight di candido marmo di Carrara, ma già aggredito da qualche insetto necrofago, e con il cervello nella mano pendula, mentre sotto il bordo del velo, il volto di Maria è un teschio. Ora è il tempo della cronaca più ossessiva o della fantasia più sfrenata; del duplicato o dell’evasione: al primo si tende ad abbinare la coscienza, alla seconda l’indifferenza, ma per il mercato valgono lo stesso.
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