Gruber e gli anni del terrorismo nel Sud Tirolo «La verità dell’inchiesta, l’abito della fiction»

l’intervistaSi intitola “Inganno” e chiude la trilogia narrativo-documentaria che Lilli Gruber ha dedicato alla sua “Heimat”, il Sud Tirolo. Nel primo libro, “Eredità”, si parlava della annessione...

l’intervista



Si intitola “Inganno” e chiude la trilogia narrativo-documentaria che Lilli Gruber ha dedicato alla sua “Heimat”, il Sud Tirolo.

Nel primo libro, “Eredità”, si parlava della annessione all’Italia e del periodo tra le due guerre attraverso la figura della bisnonna della giornalista. Nel secondo, “Tempesta”, si affrontavano le tensioni drammatiche durante la guerra. Ora si arriva agli anni Sessanta e al terrorismo sudtirolese. Lilli Gruber ne parla oggi alle 19 al Palazzo della Ragione per la Fiera delle Parole, la rassegna di libri e autori di cui il nostro giornale è mediapartner.

Il tema del terrorismo è ancora oggi difficile da affrontare nel Sud Tirolo?

«La difficoltà è data dalla vicinanza storica. Testimoni dell’epoca, parenti delle vittime: le sensibilità sono ancora molto vive. Da qui l’importanza della fiction, con i suoi quattro protagonisti inventati, anche se ispirati a fatti e figure reali. Oltre a rendere il libro, credo, più avvincente, aggiungere la fiction all’inchiesta permette di affrontare il tema nella sua complessità anche psicologica».

In che misura anche questo libro è intrecciato con la storia della sua famiglia?

«Negli anni Sessanta la mia famiglia si era trasferita a Verona, per via del lavoro di mio padre. Ho vissuto sulla mia pelle – avevo sei anni – la difficoltà di essere “la tedesca” in un tempo in cui i miei “compatrioti” si trovavano sulle prime pagine dei giornali come terroristi, nemici pubblici della nazione. Un capitolo di “Inganno” racconta quel periodo anche attraverso i reportage e i titoli dei giornali. Ne emerge bene il clima di forte tensione che si respirava. Lo stesso che ritrovavo a casa della mia nonna a Egna quando andavamo a trovarla, dove i “grandi” si accaloravano in roventi discussioni».

Come convivono la parte giornalistica e la parte narrativa?

«Inchiesta e fiction si compenetrano, e devo dire che il “montaggio” tra i diversi tipi di testo è stata una delle parti più interessanti del lavoro. Nelle interviste e nei documenti, il lettore trova riferimenti precisi, mentre grazie alla fiction può immergersi nelle atmosfere e nella dimensione psicologica. È interessante mostrare al lettore come certi passaggi della fiction che sembrano “romanzeschi” trovino poi puntuale riscontro nelle parole di chi quegli anni li ha vissuti: in questo senso è significativa l’intervista a Herlinde Molling, una ex terrorista nord-tirolese di primo piano che ho incontrato a Innsbruck e che sembra il personaggio di una serie tv».

Lei interpreta in chiave internazionale il terrorismo sudtirolese.

«È stato fondamentale il ruolo della Guerra fredda e delle sue strategie nel terrorismo sudtirolese. Non dimentichiamo che sono anni in cui l’Italia è una democrazia fortemente controllata dagli Stati Uniti. È inevitabile quindi che assumesse una dimensione internazionale anche ciò che accadeva in un territorio cruciale come il Brennero, frontiera d’Europa. Dal Brennero doveva passare l’invasione sovietica e contro questa eventualità erano state previste contromisure nucleari: abbiamo rischiato una Hiroshima sulle Alpi, proprio perché in gioco c’erano forze ben più potenti rispetto a qualche dinamitardo».

Il libro sembra suggerire che la strategia della tensione sia nata in questa occasione.

«Di sicuro ci sono fili che legano queste due epoche, per molti aspetti assai diverse. Un capitolo di “Inganno”, è dedicato all’archivio del questore Silvano Russomanno, che ha trascorso gli anni Cinquanta in Sudtirolo: ritroviamo il suo nome in varie vicende degli Anni di piombo, a partire dalla strage di piazza Fontana. Sull’altro fronte, l’eversione nera che tanta parte avrà nella strategia della tensione era attiva, tutti i documenti e tutti gli storici lo dicono, nel Sudtirolo degli anni Sessanta».

Cosa insegna la questione altoatesina sull’oggi?

«Innanzitutto che nulla è come appare. L’inganno, la strumentalizzazione e la manipolazione di fatti e persone è un rischio permanente. Soprattutto in momenti di crisi economica e di instabilità politica. Oggi le chiamiamo fake news. Assistiamo inconsapevoli alla crescita in tutta Europa di istanze nazionaliste e al diffondersi di populismi che usano le parole come armi. La violenza potrebbe non restare solo quella verbale. Ricordiamoci che i nazionalismi hanno provocato le più grandi tragedie del Novecento». —



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