Il paesaggio senza più trama di Cézanne

di MARCO GOLDIN
Il caso di Paul Cézanne è ovviamente uno dei maggiori che l’intera storia dell’arte ricordi. Partecipò soltanto in due occasioni alle mostre del gruppo impressionista: la prima del 1874 negli studi lasciati vuoti dal fotografo Nadar in Boulevard des Capucines a Parigi, e la terza del 1877 in Rue le Peletier. Ebbe sempre in sospetto lo svaporare del colore impressionista, e tenne sempre invece rotta verso quella costruzione, anche del colore, attraverso la forma. Non meglio, del resto, gli andò al Salon, dove, al contrario degli amici pittori, venne sempre rifiutato negli anni Sessanta e Settanta, e l’unica sua partecipazione avvenne al principio del decennio ancora successivo, quando ormai la pelle della sua pittura era venuta definitivamente mutando.
Poiché con Cézanne si giunge al punto di maggiore scavalcamento, dentro l’impressionismo, verso il nuovo secolo, con una natura che si offre nuda, scabra, scavata ed essenziale per l’avanguardia cubista che verrà. Natura senza più aggettivi. Nel suo paesaggio non c’è più trama, più racconto, non esiste nulla se non l’atto del vedere e la sua successiva trasformazione in nucleo. O meglio, il tornare a quel punto interno, invisibile, che costituisce l’architettura stessa del mondo naturale, la sua completezza. Cogliendo insieme struttura e profondità, Cézanne si riconnette al tempo primo del mondo, alla chiarezza di una manifestazione che poi è stata soverchiata dalle molte sovrastrutture che ne hanno impedito l’originale conoscenza.
Nel suo libro bellissimo, “Il dubbio di Cézanne”, uscito nel 1948, Maurice Merleau-Ponty parla proprio di una “visione che va fino alle radici, al di qua dell’umanità costituita”, intendendo riconoscere proprio quella pittura che raggiunge e tocca il tempo del principio, prima che il mondo si costituisse con le sue regole. Per questo la pittura di Cézanne ha una sua voce fonda di ancestralità, perché con un salto dentro l’essenza della visione, nella sua struttura, compie un cammino al di fuori del tempo, eppure rimanendo al suo interno. La sua opera è contemporaneamente presente e futuro, essendo nata nel momento dell’origine.
La superficie piatta del paesaggio di Cézanne, che non accenna a una profondità prospettica, rifiuta le tradizionali convenzioni appunto della prospettiva. È un disgiungersi e un frammentarsi dello spazio, e non si attua più un passaggio successivo dal vicino al lontano. Questo comincia ad accadere in modo consapevole nei paesaggi a Pontoise tra il 1879 e il 1882, ma prosegue e incontra la sua perfezione soprattutto negli ultimi quindici anni della sua vita, in area provenzale. Nasce quella “visione prismatica” di cui parla Kenneth Clark.
Il pittore scoprì alcuni dei suoi motivi pittorici più personali nella cava abbandonata di Bibémus e nell’adiacente proprietà di Château Noir, situate a circa quattro chilometri a est da Aix-en-Provence, nel mezzo delle due strade che conducono alla montagna Sainte-Victoire, quella proveniente da Vauvenargues e quella da Le Tholonet. La strada retta che giunge da nord, appunto da Vauvenargues, e che segue la valle di La Torse verso Saint-Marc-Jaumegarde, era la strada che il giovane Cézanne e i suoi amici prendevano per le loro escursioni alla Sainte-Victoire, fermandosi anche a nuotare nell’acqua calda di La Torse, prima di giungere alla diga costruita dal papà di Emile Zola negli anni Cinquanta. Attorno alla cava di Bibémus si trovavano alcune proprietà come quella di Château Noir o il vecchio domain dei Gesuiti detto di Saint-Joseph, entrambe sulla strada che conduce al vicino, e bellissimo, villaggio di Le Tholonet. Dal quale Cézanne e i suoi amici d’infanzia raggiungevano le vicine rovine dell’acquedotto Romano, pescando nella Cause, un piccolo fiume che confluiva nell’Arc.
La strada tortuosa che congiungeva Aix a Le Tholonet, era di gran moda nell’ultimo decennio del secolo, proprio quando Cézanne realizza alcuni tra i suoi quadri più belli in quelle zone. La si utilizzava per escursioni a piedi o sui carri trainati da cavalli, anche per le notevoli migliorie che l’Amministrazione aveva realizzato su quella stessa strada.
Veniva affermandosi dunque anche un turismo legato alla natura, tanto che il giornalista locale Pierre Cheilan poteva scrivere nel settimanale “Le Mémorial d’Aix” dello “charme dei superbi punti di vista che i visitatori possono ammirare da lontano, la fascinazione di luoghi stupendi attraverso i quali essi si troveranno a passare”. E il giornalista indicava poi nel rapporto con la pittura una delle caratteristiche di quel paesaggio, evocando nei suoi articoli molti motivi perfettamente cezanniani, quando accennava a boschi e paesaggi rocciosi, oltre ovviamente alla montagna sacra.
Château Noir era in realtà una modesta casa provenzale di campagna, consistente in due edifici, su un unico piano, ad angolo retto, entrambi con finestre di forma ogivale che guardavano verso nord-ovest e verso sud-ovest. Le notizie sull’utilizzo di questa casa da parte di Cézanne non sono del tutto coincidenti. Gasquet afferma che il pittore la affittò dal momento della morte della madre (ottobre 1897) fino al 1902, quando la proprietaria gli chiese di lasciarla e l’artista aprì l’atelier di Le Lauves. Ma, più probabilmente, l’affitto avvenne dal 1887, poco dopo la morte del padre avvenuta l’anno precedente, fino al 1902. Cézanne fece un tentativo, nel 1899, di acquistarla, ma la trattativa non andò a buon fine.
Come intonazione pittorica, i quadri dipinti attorno a Château Noir, sia quando inquadrano la casa sia quando indugiano, come quello esposto nella mostra di Treviso, sul bosco circostante, sembrano quasi appartenere a un clima romantico, con immagini di castelli in rovina e alberi come silhouette lungo fianchi di collina. Il senso della solitudine del paesaggio, così tanto amato da Cézanne, sembra incontrare, nelle visioni attorno a Château Noir, un suo punto di assoluta perfezione, dal momento che egli aveva mostrato di amare il senso del mistero evocato dal buio del sottobosco e dall’improvvisa apparizione dell’azzurro del cielo tra le fronde mosse dal vento. Del resto, vale la pena di ricordare l’interesse dello stesso Cézanne per la foresta di Fontainebleau, dove aveva lavorato negli anni Novanta e poi tra 1904 e 1905, sulla scia di quanto avevano fatto Corot e i suoi sodali, esplorando proprio questo tipo di motivo per quanto riguarda il paesaggio. C’è tra l’altro una bellissima fotografia che lo ritrae seduto e assorto tra le rocce, nell’osservazione del paesaggio a Fontainebleau.
L’antichità della foresta e la sua formazione geologica, avevano affascinato, già alla metà dell’Ottocento, scienziati e turisti, ma anche artisti e scrittori. Cézanne, a questo proposito, non poteva certo non conoscere il passo di Flaubert, nella sua “L’educazione sentimentale”, nel quale i due amanti Rosanette e Frédéric fanno la loro passeggiata tra le rocce di Fontainebleau, entro un clima di natura drammatica, evocante il caos, cataclismi, aria di vulcani, tempo d’inizio del mondo e sua fine. Insomma, tutto ciò che fa romanticismo.
E c’è una totale affinità tra questo spirito e quanto Cézanne dipinge più brevemente a Fontainebleau e più compiutamente a Château Noir. In questi ultimi quadri vive un senso quasi claustrofobico del paesaggio, con quell’azzurro che occhieggia appena nel folto. Del resto, tradizionalmente i luoghi rocciosi erano associati al senso malinconico e per esempio Roger de Piles, nel suo Corso di pittura del 1708, scrive: “Le rocce sono esse stesse malinconiche e adatte alle solitudini”. Quello che è certo è che Cézanne si è allontanato del tutto dall’impressionismo. Nell’ultima lettera, inviata al figlio Paul una settimana prima di morire, il15 ottobre 1906, scrive: “Continuo a lavorare con difficoltà, ma, insomma, qualcosa faccio. È questo l’importante, credo. Poiché le sensazioni formano il fondamento del mio lavoro.” Parla di “sensazione” e non di “percezione”, lo stacco dall’impressionismo è totale. La sensazione è una percezione rafforzata da un aspetto psicologico ed emotivo. Una visione con sentimento, qualcosa di profondamente intimo. Perché con l’occhio che scruta, Cézanne va fino all’origine dell’essere, all’origine dello spazio universale.
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