Il suicidio in pubblico sembra un atto di coraggio ma è un modo per fuggire alla responsabilità delle proprie azioni
Talvolta il gesto, un gesto preciso può sintetizzare un mondo, evocare antichi passaggi nascosti, può portare la mente altrove. È una sintesi emotiva che in un minuto può valere una vita. Un gesto...

Talvolta il gesto, un gesto preciso può sintetizzare un mondo, evocare antichi passaggi nascosti, può portare la mente altrove. È una sintesi emotiva che in un minuto può valere una vita. Un gesto compiuto davanti a una platea, un palcoscenico come un tribunale internazionale può scatenare infinite emozioni, dalla assoluzione alla punizione: è una sorta di autocelebrazione della colpa. Morire davanti al mondo che guarda può addirittura provocare un annullamento, spostare l’attenzione e generare una sorta di senso di colpa del ritorno.
È così che Slobodan Praljak toglie dalla tasca una fialetta di veleno, la beve davanti ai rappresentanti del Tribunale internazionale dell’Aja e muore. Un evento antico, un rituale che richiede coraggio. Così il veleno torna alla ribalta, e la colpa rinuncia all’autorità di un Tribunale che il gesto cerca di esautorare e delegittimare.
Il coraggio della morte come soluzione ed espiazione è anche nel grande rituale dello harakiri giapponese, ma anche lo splendido e antico passaggio nella morte di Socrate.
Avvelenatori e avvelenati, sembra il tempo dell’esecuzione simbolica; in un mondo così rarefatto e privo di gesti significativi, il veleno bevuto davanti a tutti sa molto di rito, ma anche di un ritorno agli scenari visionari dei film d’azione alla James Bond, o del mondo del segreto e dello spionaggio, dove uccidersi con capsule avvelenate fa della morte la tutela e della conservazione non detto e non rivelato.
Troviamo veleno in Madame Bovary, eroina incoronata da Flaubert, simile epilogo qualche giorno fa nel generale croato al tribunale dell’Aja, ma anche in Cleopatra e Socrate. Chi si uccide per onore, chi si uccide per disonore; casi e con quest’uomo si suicida la modernità che rinuncia definitivamente ad essere tale, e consegna ancora una volta nelle scelte e nelle mani di un uomo la chiusura di un cerchio maledetto, come fu il Novecento, carico di morte.
È necessario andare nel mondo affascinante e complesso dei samurai per trovare una sintesi così complessa: lo harakiri, dove il samurai si sottrae alla pena o manifesta la propria verità per una pena ingiusta, diventa il rituale che evoca nell’azione suicida il suo significato più profondo rievocato anche da Ryuko Mishima, suicida nel 1970.
E così le figure declinate dalle morti eroiche risultano per lo più significative quando il veleno diventa un simbolo del coraggio e il trionfo della dignità della colpa, sia essa negata, reale o ingiusta. Dà comunque significato alla dignità oggi sepolta dai comportamenti piuttosto vili e inspiegabili di molti personaggi del mondo contemporaneo delle istituzioni che sfuggono non tanto dalla colpa, ma dalla dignità.
Recuperare dignità e coraggio sono sentimenti e comportamenti necessari per restituire credibilità non solo all’umano, ma ai ruoli istituzionali nel nostro Paese. Talvolta la morte manifesta e pubblica può diventare utile, necessaria, non giudicabile, ma utilizzabile per restituire a una collettività oppressa la sua ragione d’essere.
I cittadini italiani, lo dice l’ultimo dato I
stat, covano rancore e insoddisfazione, sfiducia nel futuro e nella politica in genere. Il rancore e il dolore sono la perdita di un ideale, il risultato di un tradimento. Quindi, se può essere utile la morte, il veleno, la spettacolarità del gesto del croato, allora chi preferisce chiudere la porta all’onestà e al coraggio della colpa diventa reo anche di questa rinuncia della fiducia di un popolo e di chi ancora crede nei valori importanti come la dignità.
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