La luce filante di Mark Tobey e il segno di un precursore

Alla Guggenheim di Venezia la prima retrospettiva dedicata all’artista americano Considerato l’ispiratore di Pollock ha fuso cultura occidentale e grafica orientale
Di Enrico Tantucci

di Enrico Tantucci

Un precursore dell’Espressionismo Astratto - probabilmente l’ispiratore di Jackson Pollock, alla metà degli anni Quaranta, quando l’inventore dell’Action Painting era ancora immerso nella sua fase surrealista - pur senza voler aderire mai a nessuna corrente.

È stato un personaggio girovago, solitario, di grande fascino, oltre che un grande artista, Mark Tobey a cui da oggi - e fino al 10 settembre a Venezia la Collezione Guggenheim (con la collaborazione della Lavazza con cui inaugura una collaborazione pluriennale) dedica la prima retrospettiva italiana e l’esposizione maggiore dedicatagli in Europa agli ultimi vent’anni.

L’inventore della “scrittura bianca”, il linguaggio pittorico e segnico trasferito prima sulla tempera su carta e successivamente sulla tela, con cui l’artista statunitense ha reinterpretato alla sua maniera la tradizione calligrafica orientale, creando una nuova, raffinatissima forma di astrazione. “Mark Tobey. Luce filante”, la mostra veneziana curata da Debra Bricken Balken - e che dopo Venezia, da novembre, approderà alla Addison Gallery of American Art, in Massachussets, che l’ha prodotta - illustra tutta l’avventura artistica di Tobey, attraverso 66 dipinti che spaziano dalle opere degli anni Venti fino a quelle degli anni Settanta, quando anche la dimensione dei suoi lavori si dilata.

Più anziano di circa vent’anni dei “grandi” della Scuola di New York come appunto Pollock, Rothko e Newman, arrivato più tardi alla dimensione artistica dopo una prima fase da illustratore, Tobey arriva intorno al 1944 a esporre per la prima volta a New York i suoi straordinari, piccoli dipinti, dove le griglie chiare di segni, le linee sottili richiamano in qualche modo le architetture delle grandi città americane, i candidi bagliori delle luci elettriche, ma permeandoli di un’idea di astrazione lirica che gli arriva anche dalla sua profonda immersione nel mondo segnico orientale. Una sintesi con la cultura visiva occidentale ottenuta attraverso i viaggi di studio tra Honk Kong, Shanghai e Kyoto che gli permisero di accostarsi alle calligrafie orientali e di farne anche lo spunto per un nuovo originale, linguaggio pittorico, condividendone anche la valenza spirituale. Solo alla fine degli anni Cinquanta Tobey poi inizierà a sperimentare l’antica arte giapponese del Sumi-e (sumi - inchiostro e - dipinto), la pittura a inchiostro nero, introdotta dalla Cina verso la fine del 1300 e la cui particolare qualità della forma nasce dalla combinazione di tre elementi: l’uso dell’inchiostro con la sua scala di toni dal bianco al nero, il tipo di pennello e la qualità della carta, più o meno assorbente.

Meno osannato dalla critica dei suoi presunti “compagni” dell’Action Painting - insieme a loro nel 1956 partecipò all’importante rassegna londinese ospitata alla Tate Gallery - Tobey fu un geniale precursore, a cui si sentirono vicini numerosi artisti. Da Robert Ryman, con la sua pittura analitica, a Keith Haring con i suoi graffiti, fino a Jean Dubuffet, che di fronte ad alcuni lavori dell'artista americano si trovò a dire «non si è mai soli».

Ma, essendo a Venezia, e ammirando i lavori di questo grande artista, non si può ad esempio non pensare anche al segno spazialista di Mario Deluigi, certamente vicino nelle sue vibrazioni a quello delle composizioni di Tobey. Nell’ultima parte della sua esistenza - trascorsa tra Seattle, New York, Parigi, fino agli ultimi anni passati a Basilea, e inframezzata da lunghi viaggi - aumenta la dimensione dei dipinti dell’artista e la minuta “scrittura bianca” dei suoi inizi viene ora declamata in grandi campiture, in una dimensione spirituale della sua pittura che diviene cosmica, assoluta.

L’ultima, bellissima sala della mostra veneziana alla Guggenheim è un inno a quest’ultima svolta di un artista grandissimo, cittadino del mondo e forse per questo lontano dal “nazionalismo” dell’Espressionismo Astratto.

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