Le emozioni semplici e la bellezza primitiva tra Gauguin e i Nabis

di Virginia Baradel
La mostra d’autunno di Palazzo Roverella a Rovigo “I Nabis, Gauguin e la pittura italiana d’avanguardia”, che si è appena inaugurata e durerà sino al 14 gennaio, ruota intorno all’“estetica della semplicità”. Lo spunto è tratto dallo stesso Gauguin che, tra le molte espressioni felici e calzanti che pronuncia su un confine di ricerca ai bordi della civiltà, ne usa una che più chiara non si può: «Voglio un’arte semplice, molto semplice».
Il curatore Giandomenico Romanelli ne fa il principio attivo di una spoliazione antimpressionista che elimina anche l’ultimo baluardo delle ragioni dell’occhio (l’Impressionismo appunto) per adottare la terna di principi tecnici, forme piatte, colori antinaturalistici e contorni chiusi, come fondativa e tale da giungere sino al Realismo magico di Cagnaccio di San Pietro.
Una pista inedita e anche difficile da giustificare perché la purezza incontaminata, il desiderio di candore originario che gli artisti cercavano in Bretagna nell’ultimo scorcio dell’Ottocento, sta alla minerale oggettività del Realismo magico come una crisalide sta al quarzo.
La Bretagna era già prima dell’arrivo di Gauguin e del suo giovane seguace Émile Bernard, meta prediletta da molti artisti: dagli accademici agli impressionisti. Vi soggiornavano anche artisti inglesi e americani che amavano il pittoresco. Approdare in quella terra aspra e incantevole tra Pont-Aven e Douarnenez era l’esatto opposto del Grand Tour, era ritrovare la verginità dello sguardo e la genuinità dei sentimenti.
È però con Gauguin che il pittoresco dei pescatori e delle contadine bretoni, dei tetti spioventi e dei tersi paesaggi cambia pelle e, da ristoro dei pittori in fuga dal chiasso delle metropoli ribollenti di modernità, diventa il nuovo comandamento della pittura che dovrà purificarsi per rendersi degna della rude, primitiva bellezza del posto.
La leggenda di Pont-Aven incomincia con il devoto intento di cantare senza filtri il fascino primitivo di quel luogo e di quelle genti. In verità anche un artista inglese come Robert Brough, una delle rivelazioni di questa mostra, ha colto la bellezza innocente e regale delle fanciulle bretoni, e l’ha anche esposta alla seconda Biennale del 1897, usando una pittura a tacche fluide di colore e lame di luce montate con una scioltezza narrativa che era di casa in Europa, da Madrid a Monaco. Dunque il miraggio era chiaro, ma per arrivare a quella specie di misticismo cui pervengono Gauguin e i Nabis bisognava aggiungere la regola del pellegrino: disfarsi dal bagaglio e arrivare in punta di piedi, senza sovrastrutture.
Gauguin era perfetto per l’impresa: arrivato tardi alla pittura stava con gli impressionisti, più tollerato che amato, seguiva Pissarro e cercava di stringere sull’essenziale. La prima volta che capitò a Pont-Aven non aveva affatto chiaro quel che avrebbe fatto, sapeva solo che alla locanda si mangiava gratis. La conoscenza delle stampe giapponesi e un primo soggiorno in Martinica lo avevano però convinto che la pittura avrebbe dovuto liberarsi da ogni residuo di mimesi e accuratezza e che invece, nella totale libertà di esprimersi e di comporsi, avrebbe dovuto tendere all’astrazione. Siamo nel 1888 e la Bretagna è la risposta: «Amo la Bretagna: qui trovo il selvaggio e il primitivo. Quando i miei zoccoli risuonano su questo granito, sento la tonalità attutita, opaca e potente che cerco in pittura».
In quel soggiorno conosce Emile Bernard, un giovane pittore che si era appassionato alle stampe giapponesi e alle forme chiuse, piatte, marcate dalla linea di contorno, cloisonnés come s’incomincerà a dire sull’esempio delle vetrate, destinate a diventare un totem delle esperienze degli artisti Nabis.
La cosiddetta Scuola di Pont-Aven nasce spontaneamente raccogliendosi intorno ai due e scandagliando il varco verso un nuovo inizio che richiede di adottare una pratica primitiva e spontanea. Il più sensibile e ardito seguace di Gauguin è un giovane in vacanza con la famiglia in Bretagna, Paul Sérusier cui il maestro ordina di dipingere gli alberi non come sono ma come li vede: bene, anzi meglio, se li vede gialli e piatti.
Folgorato da questa capovolta della pittura, Sérusier torna a Parigi e nel giro di pochi mesi crea con i compagni della parigina Académie Julian, Bonnard, Ibels, Ranson e Denis il gruppo dei Nabis (profeti in ebraico) cui ben presto si uniranno Vallotton, Maillol, Seguin, Verkade e Lacombe. La mostra rivelazione avviene al Café Volpini suscitando ondate di aspre critiche e di battagliere adesioni.
Siamo nel 1889, l’impressionismo è ufficialmente morto sostituito dal sintetismo che tende a fondere la spontaneità della visione e del sentimento, con la purezza delle linee che chiudono colori piatti e irreali: «Un dipinto, prima di rappresentare un cavallo o una donna nuda è essenzialmente una superficie piana ricoperta di colori assemblati in un certo ordine» scriverà Denis.
I quadri in mostra a Rovigo ne danno ampio saggio, soprattutto con opere di artisti meno noti come Filiger e Verkade o Cuno Amiet, degno di tutta l’attenzione che gli è stata riservata. Il più ispirato e motivato è Maurice Denis che delle usanze bretoni coglie soprattutto l’aspetto della devozione, della tradizione religiosa e del suo ingenuo pathos, giungendo a una specie di candido misticismo che aggiorna e solarizza il simbolismo di Puvis De Chavannes.
Anche l’Italia vanta un grande pittore sintetista, che va in Bretagna più volte a constatare come la frattura tra i colori e le cose fosse ormai insanabile e come la libertà di usare i colori anche per tracciare le linee, poteva persino superare il complesso dell’Eden dei Profeti.
I paesaggi bretoni di Gino Rossi a Rovigo non ci sono, ma ci sono quelli di Burano e di Asolo che parlano la stessa lingua, lo stesso impeto di tratto e di colore dove il mare è rosa e i campi sono una gemmazione di verdi, aranciati e blu di Prussia incastonati come smalti. Anche nei ritratti funziona la stessa dinamica di un fluire piatto, interrotto dalle curvature della linea che fissa sommariamente le sembianze e le rende infinitamente più acute.
È il tempo bello di Rossi, quello di Ca’ Pesaro, del sodalizio con Martini, del plauso di Barbantini e della Bretagna in laguna fissata a Burano, dove c’è già un cenacolo di artisti in cerca di quel che Gauguin cercava a Pont-Aven: una vita e uno sguardo tornati innocenti.
Moggioli e Wolf Ferrari sono sulla stessa lunghezza d’onda quanto a semplificazione formale e accensione di campi cromatici in versione cloisonnist. E sin qui ci siamo, il nuovo corso dell’arte sancito in Bretagna a indicare la via dell’astrazione, sulla scia del sintetismo e della decorazione, è ben chiaro. Ma poi entrano in scena due artisti di valore che potrebbero essere la perfetta chiusa del percorso e che invece aprono al Realismo magico. Oscar Ghiglia e Félix Vallotton tornano sui passi della figurazione. Certo: smagliante, piatta, felicemente e maliziosamente semplificata in Ghiglia; intimista, ambigua, sospesa in Vallotton.
Svizzero come Vallotton è un altro sorprendente e poco noto pittore, Marius Borgeaud, colpito sulla via della Bretagna già adulto e capace di sintesi d’interni giocati su partiture di calvinista sobrietà. È vero che Vallotton ha in comune con Casorati (l’altro nome chiamato in causa con Cagnaccio) molto più del nome proprio e di questo si è trattato l’anno scorso nella mostra “Orizzonti Nord-Sud” al Lac di Lugano; ma è difficile che possa fare da link tra i due “Bambina che gioca su un tappeto rosso” dove Casorati si produce in una piccola rassegna di segnali in direzione colta e persino antica e semmai debitrice, a quell’altezza del 1912, dell’imprinting decorativo di Eduard Vuillard. Entra a forza nell’estetica della semplicità anche Mario Cavaglieri con delle opere che possono essere accostate a quelle di Ghiglia, artista finalmente riscoperto che, pur nella precisione bidimensionale, non tace la fisicità del colore. Mentre ci sembra più improbabile Cagnaccio e l’aggancio con il Realismo magico che di mistico e di candido non avrà più nulla. L’isola di San Pietro non è Burano, la guerra ha mandato in frantumi tutti i paradisi e il dopoguerra è tutto un altro film.
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