L’ultima ora della Serenissima un requiem venuto da lontano

Il 12 maggio 1797 nella Sala del Maggior Consiglio a Palazzo Ducale la votazione Tre giorni dopo il doge Manin abbandona le insegne e la residenza: è la fine
Di Francesco Jori

di Francesco Jori

Venezia, venerdì 12 maggio 1797. Nella sala dedicata di Palazzo Ducale si riunisce il Maggior Consiglio, massimo organo politico della Serenissima: sarà l’ultima volta di una lunga storia. Dei 1.218 patrizi che ne fanno parte, sono presenti solo 537; il che significa che manca quello che oggi si chiamerebbe il numero legale per deliberare. Tocca a Lodovico Manin, centoventesimo e ultimo doge, aprire una seduta che si rivelerà storica: i negoziati con la controparte francese sono ancora in atto, ma Manin non si fa illusioni, e spiega senza mezzi termini che è suonata l’ultima ora di una storia millenaria. Il requiem passa a schiacciante maggioranza (anche se formalmente non valida): 512 sì, 20 no, 5 astenuti. Tre giorni dopo, la sera del 15, il doge abbandona definitivamente Palazzo Ducale assieme ai nipoti, figli del fratello Giovanni, per recarsi a Ca’ Pesaro. E il 4 giugno, in Piazza San Marco viene piantato l’albero della libertà; subito dopo, si dà fuoco al libro d’oro del patriziato veneziano e alle insegne dogali, a partire dal corno, il copricapo indossato per secoli dai suoi predecessori. Una tradizione vuole che l’ultimo atto di Manin, prima di uscire, sia quello di consegnare a un servitore, Bernardo Trevisan, la cuffietta di tela bianca che si porta sotto il corno: “Toè questa, mi non la ’doparo più”.

In realtà quella malinconica fine della gloriosa Serenissima, ancor oggi contestata per la legalità della decisione, non avviene di colpo, tanto meno per un presunto complotto: arriva da lontano. Molti studiosi hanno argomentato con accurate analisi che nella seconda metà del Settecento Venezia (condividendo peraltro una condizione propria anche di altri nella penisola, da Torino a Genova alla stessa Roma) è uno Stato vecchio, con una classe dirigente incapace di rinnovarsi (guarda caso, proprio come l’odierna Italietta). È una chiusura che vale sul piano politico, ma anche su quello economico: i traffici soprattutto marittimi, architrave della passata potenza, sono stati abbandonati nelle mani delle compagnie concorrenti francesi e olandesi. E la stessa coscienza che è in atto un irreversibile tramonto è già presente in non poche analisi dell’epoca, come documentano diversi studi.

Nel 1781, al termine del suo incarico di capitanio e vice-podestà di Padova, Giacomo Nani nella relazione di fine mandato parla di una Venezia sull’orlo della caduta, aggiungendo che “non manca che l’urto di una qualche interna od esterna combinazione, che faccia crollar quella fabbrica”. Già mezzo secolo prima, il savio del Consiglio e storiografo Piero Garzoni scrive un “pronostico sulla durabilità della Repubblica”, dipingendola come “indebolita di Stati, di uomini e di consiglio”. Per non parlare delle indicazioni di due tra gli ultimi dogi, Marco Foscarini e Paolo Renier. Quanto al sentimento popolare, ben lo riassume una graffiante poesia di Giorgio Baffo scritta nel 1760: “Le gran teste mancando se ne va, / e no resta de qua se no i cogioni. / No se pensa che all’ozio, al lusso, al ziogo, / e i libri, che se studia sulla sera, / xe ’l mazzo delle carte, o quel del cogo. / Debotto non ghè più zente da guera, / e, se ghe n’è, questi no ha visto el fogo; / come puorla durar in sta maniera?”.

Per concludere, si può citare la relazione del residente napoletano a Venezia datata 1784: “Questa Repubblica ritrovasi nella totale sua decadenza sì per la corruzione e divisione che regna tra i suoi individui, come per la mancanza di denaro nel pubblico erario, per lo stato della sua truppa, e finalmente per lo deterioramento del suo commercio, così che qualunque potenza volesse un poco mostrarle i denti, Ella è nella dura necessità di compiacerla intieramente".

Non si tratta solo di denunce dell’ultima ora, rese evidenti dal precario stato della Serenissima: morta dunque non per attacchi o complotti esterni, ma per irreversibile (e sotto certi aspetti fisiologica) usura interna, come testimoniano autorevoli osservatori esterni. Già all’inizio del Settecento, quindi quasi un secolo prima, un ministro di Luigi XIV spiega a un ambasciatore della Repubblica che «la condizione dei gentiluomini veneziani, che si credono liberi, è simile a quella libertà che godono li cavalli di bronzo sovraposti alla porta della chiesa di S. Marco, i quali, quantunque non legati o ritenuti, pure non sapevano o potevano muoversi». Un autorevole libro di Volker Hunecke (“Il patriziato veneziano alla fine della Repubblica – 1646-1797”) spiega infine molto bene quanto profondo e di lungo corso sia il virus che avrebbe condotto allo show-down del 1797. E diversi autori hanno ben descritto la condizione di subalternità e marginalità in cui è tenuta la nobiltà di terraferma, volutamente esclusa dalla gestione della cosa pubblica. La più classica delle morti annunciate: del tradizionale e simbolico “viva San Marco”, non rimane che la nostalgia.

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