Manet, l’incanto della realtà che si fa dipinto

di MARCO GOLDIN
A partire dal 1866, Emile Zola inizia a prendere le difese di Edouard Manet, l’artista che in modo geniale porta definitivamente fuori dalle secche dell’accademismo la pittura francese, rendendola moderna. E a Manet, in effetti, guarderanno i più giovani Monet, Sisley, Renoir, il quasi coetaneo Pissarro, per scoprirvi quella fatale essenza di rinnovatore assoluto. Ancor di più dopo l’episodio clamoroso quale fu la grande mostra personale, da lui stesso organizzata, inauguratasi alla fine di maggio del 1867, nel padiglione dell’Alma a Parigi, nel tempo stesso dell’Esposizione Universale. Assieme a quella di Courbet, aperta anch’essa in un padiglione personale una settimana più tardi, metteva in scena una sorta di grado zero della pittura, senza la quale gli impressionisti non sarebbero stati gli impressionisti.
In un articolo pubblicato da Zola il 4 maggio del 1866 in “L’Evénement illustré”, il grande scrittore tra l’altro annota: “Ciò che domando all’artista, non è di darmi tenere visioni o raccapriccianti incubi; è di rivelare se stesso, cuore e carne, è affermare nel modo più alto uno spirito potente e particolare, un’indole che colga generosamente la natura nella sua mano e la pianti ben salda davanti a noi, così come la vede. Ho la più profonda ammirazione per le opere individuali, per quelle che escono di getto da una mano vigorosa e unica. Non si tratta più dunque di piacere o non piacere, si tratta di essere se stessi, di mostrare il proprio cuore messo a nudo, di formulare energicamente un’individualità”.
Tutto ciò si riferiva in modo speciale proprio a Manet, che aveva ribaltato il concetto di pittura, concetto che veniva mutando radicalmente, trascorrendo da una impostazione costruita e scenografica a una adesione diretta alla vita reale. Era ovvio come tutto ciò rispondesse a una prima, feroce novità introdotta da Courbet, il cui lavoro coincideva con quel movimento che si affermò in letteratura e al quale fu assegnato il nome di realismo. Veniva spazzato via qualsiasi tipo di armamentario immaginativo, a favore di una presa istantanea sulla vita.
Amante anch’egli dell’arte nuova di Manet, Stéphane Mallarmé pubblica, alla fine di settembre del 1876, in “The Art Montly Review and Photographic Portfolio” a Londra, un breve saggio su Gli impressionisti e Edouard Manet. In questo testo, sulla scia delle parole di Baudelaire prima e di Zola poi, Mallarmé insiste proprio sulla forma di individualismo in Manet quale fondamentale passo in avanti rispetto al precedente magma indistinto delle scuole, una sorta di stucchevole, indifferenziata melassa. Evidenzia anche lui come “i quadri si basino sulla realtà viva, anziché su sogni astratti e astrusi”, facendo inevitabilmente cadere l’accento sul peso e sulla forza della verità: “In pittura Manet seguì un processo cercando la verità e amandola quando la trovava, perché essere vero era qualcosa di molto strano, specialmente quando lo si metteva in relazione con vecchi e logori ideali.”
La vasta esposizione personale all’Alma nella tarda primavera del 1867, aveva messo in più che chiara evidenza come Manet cercasse questa verità, e attraverso quali canali pittorici egli la mettesse in primo piano. “Stanco dei tecnicismi insegnati nella scuola dove studiava guidato da Couture”, per dirla ancora con le parole di Mallarmé, Manet aveva scelto la sua strada, che era soprattutto il rivolgersi alla grande pittura spagnola del Seicento, Velázquez primo fra tutti. L’ampia attenzione data dalla cultura francese all’arte del cosiddetto Siglo de oro, si manifestò incredibilmente dapprincipio con la commissione, da parte del settore centrale delle Belle Arti, di ben 534 copie tra il 1841 e il 1880, copie richieste a 366 pittori diversi. Di molti tra essi oggi non si trova più alcuna traccia nei dizionari d’artisti. Ma poi gli ingressi al Louvre di opere del XVII secolo spagnolo, a cominciare da alcuni dipinti della collezione Soult, con i suoi Murillo e Zurbarán, quindi le visite di studio di Manet a Madrid, al Prado. Insomma, tutto questo faceva il più che diramato interesse del pittore per quel mondo, nel quale la verità lampeggiava come un diadema incastonato. Del resto, recensendo la mostra dell’Alma, che segna una sorta di apogeo proprio del periodo “spagnolo” di Manet, un critico descrisse il pittore come “il Velázquez dei boulevards”, o come “uno spagnolo a Parigi.”
Un quadro molto interessante per la sua complessità di riferimenti non solo spagnoli, realizzato appena dopo i trent’anni, come il “Ritratto di un bambino della famiglia Lange”, e che sarà esposto nella prima sala della mostra di Treviso accanto a un altro capolavoro di Renoir, ci fa entrare nel meccanismo di individualità e verità che Zola e Mallarmé hanno messo da subito in evidenza a proposito di Manet. Il bambino effigiato in piedi è molto probabilmente uno dei figli di Daniel Adolphus Lange, che fece parte della commissione che portò alla realizzazione del Canale di Suez. Anche se non è ancora del tutto esclusa la possibilità che si tratti di un’opera non riferibile a qualcuno in particolare. Ma la descrizione molto individuata del volto, e anche il reperimento di una dedica di Manet a “Madame Lange”, permette quasi con certezza di assegnare questo quadro al titolo che si propone, con il bambino che tiene nella mano destra una piccola frusta e delle flange.
Il suo forte tono di realtà, va ben oltre gli insegnamenti di un pittore di Salon, pur spesso interessante, come Thomas Couture. Gareggia invece con la presenza scenica di Courbet e parzialmente anticipa la sublime trascrizione psicologica di Degas. Si è sempre sottolineato il carattere goyesco di questa tela, anche se è impossibile dimostrare che Manet potesse aver visto alcuni dei ritratti di bambini dipinti appunto da Goya, come il Manolito Osorio o il Pepito Costa Bonnells, che presentano le figure infantili viste di fronte e con lo stesso sguardo quasi ipnotico. C’è anche, di Manet, un quadro, concluso nel 1862 ma certamente iniziato in precedenza, del periodo medesimo del Lange, Il vecchio musicista, che figura di bambino, con la sua camicia bianca, ritratto di fronte.
Ma probabilmente il riferimento più pertinente è a un pittore francese che Manet molto ammirava, Antoine Watteau, e al suo quadro con un clown chiamato Gilles e conservato al Louvre. Vi si notano la stessa posizione delle braccia, un simile abbigliamento e il cappello, tanto che, dipingendo nel 1881, il “Ritratto del bambino Henry Bernstein”, tornerà a questa stessa immagine. Ma nel bambino Lange, la tecnica flagrante e rapida, quasi incurante di taluni dettagli, e la pittura modernissima e sfatta, liquida, sembrano anticipare i modi che seguiranno, di lì a non molto, dopo la visione diretta delle opere di Velázquez a Madrid. Quello strepitoso incanto che in Manet tiene insieme la realtà e la verità da un lato e la sua rappresentazione dall’altro. Senza separazione alcuna, ma anzi esaltandosi a vicenda, questi due termini danno alla sua opera il carattere della meraviglia.
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