Modena City Ramblers «Spazio ai ribelli culturali»

PADOVA. Tracciando un’ideale linea retta sulla carta geografica dell’Europa, che unisca la città irlandese di Cork, la seconda del paese dopo Dublino, con la capitale dell’Albania, Tirana, a un certo...
Di Matteo Marcon

PADOVA. Tracciando un’ideale linea retta sulla carta geografica dell’Europa, che unisca la città irlandese di Cork, la seconda del paese dopo Dublino, con la capitale dell’Albania, Tirana, a un certo punto si intercetta uno dei capoluoghi dell’Emilia: Modena. Se aggiungiamo in questa immaginaria costellazione geografica e musicale le coordinate della città di Padova, più precisamente quelle dell’ex Foro Boario, il divertimento è assicurato. I Modena City Ramblers, nell’ambito del tour di presentazione del loro ultimo disco intitolato “Mani come rami, ai piedi radici”, giovedì sera terranno a battesimo a colpi di note folk la decima edizione di Irlanda in Festa. È stato proprio il gruppo emiliano, fin dai primi anni ’90, uno dei primi ad attingere a piene mani dalle sonorità della tradizione celtica trasformando la loro formula combat-folk in un fenomeno generazionale. Dopo frequenti cambi di formazione gli attuali componenti (Dudu, Robby, Franco, Fry, Massimo, Leo e Luca) suonano assieme da sette anni, hanno all’attivo cinque album e oltre 500 concerti. La travolgente baraonda dei MCR (il nome si ispira ai gruppi di liscio irlandese) è frutto della sapiente mescita di punk, melodie balcaniche e, ovviamente, tradizioni folk di matrice anglosassone. Ieri, l’orchestrina è tornata con un disco dove si fa più marcata l’influenza di atmosfere gitane sulla scia di artisti come Goran Bregovich e No Smoking Orchestra. Massimo Ghiacci, storico bassista, ci spiega l’arcano: «Alcuni dei brani del nuovo disco erano stati scritti per una collaborazione con il gruppo albanese, Fanfara Tirana» spiega «abbiamo suonato assieme a loro l’anno scorso sul palco del primo maggio. Impegni reciproci e lontananza hanno impedito di concretizzare il progetto, noi abbiamo proseguito per la nostra strada ma l’impronta balcanica è rimasta».

Nel disco c’è un cameo di pregio, quello dei Calexico, come è nata invece questa collaborazione?

«Si tratta di una band che abbiamo sempre apprezzato e che per noi rappresenta un po’ un riferimento: i Calexico hanno un suono riconoscibile, potentemente americano e di frontiera, ma sempre in grado di sorprendere. Quando abbiamo scritto “Ghost Town” l’idea era di fare un arrangiamento nel loro stile. Visto che sognare non costa nulla, abbiamo deciso di proporla ai diretti interessati. Grazie all’intercessione di un comune amico, Antonio Gramentieri dei Sacri Cuori, c’è stato un incontro a Bologna in occasione di un loro live. Poi niente, per mesi e infine la sorpresa: avevano già inciso nel loro studio di Tucson il nostro brano».

Parlando in generale del nuovo album, dopo “Niente di nuovo sul fronte occidentale” che rappresenta un impegnativo concept di storia e cronaca, in questo disco c’è un orizzonte prevalentemente autobiografico, bisogna ripartire dalla persona?

«Non è necessariamente questa l’interpretazione che vogliamo dare alla nuova produzione, è più che altro una conseguenza del fatto che artisticamente con quel disco avevamo fatto un grande sforzo compositivo confrontandoci con la cronaca e la storia, dall’unificazione a oggi. Dopo un disco così imponente ci è venuto naturale cercare di trovare altri orizzonti espressivi, è stata una reazione naturale e spontanea».

Molte canzoni sono in dialetto, ma perché, parafrasando i conterranei Cccp, la vostra Emilia non è paranoica?

«Pur essendo cresciuto con la loro musica, devo dire, la paranoia non ci appartiene, esprimiamo stati d’animo diversi: malinconia, dolore, ma anche reazione, allegria, positività, in noi vince la voglia di guardare il bicchiere mezzo pieno. Camminiamo sul lato soleggiato della strada. Dipingerci come allegri beoni sarebbe umiliante, nel nostro repertorio coesistono canti politici e goliardia, brani che parlano di perdite, di orizzonti ricercati e trovati, di incontri. Questo è anche ciò che rappresenta la nostra terra, l’Emilia, tra la grande pianura con le sue nebbie magiche, una terra che si nasconde e che si rivela in maniera del tutto stupefacente, e poi le montagne con i loro silenzi. Rispetto alla generazione che ci ha preceduto, forse, la chimica ha lasciato posto a qualche derivato del luppolo e per noi il risultato è sufficiente a spostare la prospettiva».

“Volare controvento”: si può ancora? Oppure cantare la resistenza e la libertà rischia di rappresentare una mera operazione di testimonianza? Dove li vedete i ribelli di oggi?

«Ce lo domandiamo ogni giorno. La risposta è che noi ci crediamo ancora. La metafora del volare controvento è invito alla resistenza che oggi più che mai è soprattutto un fatto culturale, ribellarsi al qualunquismo e alla volgarità che cresce e si diffonde, a volte la scopriamo in ognuno di noi. Forse il rock non è più la forma delle giovani generazioni, ma penso che ci sia ancora tanto spazio per ribelli culturali qualsiasi strada prenderanno».

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