Nella società consumista la felicità viene vissuta come un diritto, non più come un desiderio. Il resto è frustrazione e sconfitta

Da Aristotele a Zygmund Baumann, tutti hanno lasciato una traccia nel loro modo di interpretare l’universo, pur separati nei millenni e con alterne interpretazioni, ma sulla felicità si è sempre...

Da Aristotele a Zygmund Baumann, tutti hanno lasciato una traccia nel loro modo di interpretare l’universo, pur separati nei millenni e con alterne interpretazioni, ma sulla felicità si è sempre teorizzato cercando fili conduttori per ottenerla. Scopriamo in questo giorni che l’Italia è al 48esimo posto come paese felice, e ci si rende conto che di questo sentimento sembra essersene perse le tracce. Baumann, sociologo e filosofo del nostro tempo, nei suoi ultimi scritti ci fa guardare al nostro modo di vivere come una costruzione basata non più sulla speranza, ma sul desiderio.

Ci siamo dimenticati della felicità perché la pulsione rende i nostri comportamenti incontrollati in modo tale da spingerci ad assolvere ai desideri assommando desideri su desideri, perdendo così di vista gli obiettivi esistenziali. Società liquida, economia liquida, amori liquidi, la mancanza di essenza rende la collettività senza punti di riferimento, contenitori, regole, confini, è il paradosso dell’illusione costruita nella follia degli anni Settanta, dove smantellare i costrutti universali avrebbe reso l’uomo più felice. Sempre riprendendo le parole di Baumann, «la felicità è la risposta a ciò che si consuma», un drammatico epilogo della storia che rende, noi italiani in particolare, presi dalla nevrosi dell’avere anziché delle essere. Del resto la logica del consumismo si basa proprio su questo meccanismo: desiderare, possedere e annullare la frustrazione, un’incapacità a questo punto quasi sociale. Se la società del benessere si è costruita ed evoluta sulla capacità umana di affrontare le difficoltà, annullare la fatica, mettere in atto un desiderio per raggiungere gli obiettivi, formulare risposte allo stato sociale, oggi tutto questo sembra essersi polverizzato in un laconico lamento vittimistico e infantile da parte di una società che sta facendo i conti su ciò che non ha più ed è incapace di trovare nuovi desideri come progetti. La felicità è un sentimento semplice, fatto di dettagli, di quella capacità di intercettare le sensazioni di leggerezza e appagamento che provocano quella piacevole sensazione di lievitazione mentale, fatta per lo più dal nostro modo di guardare il mondo, percepire le emozioni, tradurre la nostra interiorità nella dimensione che ognuno è in grado di costruire e produrre. Se nell’antichità la felicità era un privilegio, nelle epoche successive diventa quasi un diritto universale, un dovere, mentre e l’infelicità diventa una colpa. Nel processo di globalizzazione in atto, la felicità non è più una condizione a cui ispirarsi, perché si è smantellata l’idea di consapevolezza e l’identità stessa sembra un’utopia. Se si celebrano i 60 anni dei trattati europei, è anche inevitabile guardare all’Europa come a un paradosso mentale, dove si celebra un’identità che non c’è e parallelamente la si disconosce, perché non c’è un progetto per rendere i popoli più felici, in realtà li stiamo rendendo un presupposto finanziario, un doppio legame che da un lato auspica ciò che poi disconosce. La felicità riguarda anche la nostra capacità di essere aperti verso l’altro, senza rimuoverne i problemi. Siamo seduti su un castello di carta che sa solo produrre iperconsumi, ma ha dissolto i legami, le relazioni, smantellato qualsiasi regola, sia del fare che del convivere.

La strada è impervia e carica di difficoltà, ma la felicità può apparire improvvisamente, proprio quando pensiamo che sia tutto perduto. Essere felici si può, ma è necessario smantellare uno stile di vita che non ci rappresenta, eliminare obblighi e ingombri relazionari, superare il bisogno di piacere e compiacere, imparare l’ascolto, quello meraviglioso del silenzio, ascoltare le parole degli altri, guardare il mondo intorno a noi con curiosità, e non smettere né di imparare, né di amare, non solo una persona, ma la vita, con la consapevolezza che la felicità è in realtà il rischio di sentire la vita.

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