«Venezia è la mia casa e il mio laboratorio Porto Marghera, una grande opportunità»

L’INTERVISTA
Si sente veneziano a tutti gli effetti, con la casa nella città storica e lo studio da anni a Porto Marghera, anche se è nato a Torino, 56 anni fa. Perché Luca Massimo Barbero - di lui stiamo parlando - ha legato indissolubilmente il suo percorso di critico e storico dell’arte alla città in cui si è laureato alla fine degli anni Ottanta in Storia e Critica delle Arti Visive, con il maestro Giuseppe Mazzariol. E non l’ha più lasciata - facendo il pendolare - anche quando, per un paio d’anni ha diretto a Roma il Macro, il Museo d’Arte Contemporanea della Capitale.
A Venezia sono legate tutte le tappe principali del suo “cursus honorum” artistico. Dalla presidenza della Fondazione Bevilacqua La Masa, con il rilancio dell’istituzione pubblica dedicata ai giovani artisti triveneti ormai boccheggiante. All’incarico, all’inizio degli anni Duemila, di curatore associato della Collezione Peggy Guggenheim, con una serie di mostre di importante rivalutazione dell’arte italiana del dopoguerra, fino all’ultima, appena conclusa, dedicata a Osvaldo Licini. Al nuovo impegno di direttore dell’Istituto di Storia dell’arte della Fondazione Cini, che ricopre da cinque anni, segnati dalla riapertura di Palazzo Cini, ma anche da un lavoro in profondità di acquisizione di archivi storici di artisti e galleristi. Tra gli ultimi quelli di Ettore Sottsass e Carlo Cardazzo. Con un consenso crescente, tanto che il recente, tradizionale sondaggio tra esperti del Giornale dell’Arte sul meglio e il peggio dell’annata artistica italiana lo ha visto primeggiare tra i critici italiani.
Per questo è tempo di un primo bilancio, in un anno che vedrà tra l’altro la Cini organizzare due mostre importanti come quella dedicata ad Alberto Burri a San Giorgio (curata da Bruno Corà) e quella del pittore “emergente” rumeno Adrian Ghenie, a Palazzo Cini, che lo stesso Barbero curerà.
Barbero, il primo ricordo nitido di questa sua esperienza artistica veneziana è legato a una mostra rimasta memorabile, “Watching Water”, quella allestita da Peter Greenaway nel 1993 a Palazzo Fortuny.
«È una mostra molto cara anche a me, con Palazzo Fortuny completamente riallestito, anche con le stoffe all’esterno sulla facciata e questo dialogo tra l’intervento di un regista e un esteta come Greenaway con le opere di Mariano Fortuny. È un’avventura che abbiamo condiviso anche con l’architetto Daniela Ferretti - divenuta poi un punto di riferimenti per gli allestimenti espositivi a Venezia e non solo – e mi piace pensare che anche da quella mostra sia nata un’idea di riuso e “contaminazione” di Palazzo Fortuny, con antico, moderno e contemporaneo in dialogo con le opere di Mariano che è diventato la cifra distintiva anche per le mostre successive del museo».
E poi l’esperienza alla Bevilacqua La Masa, con la proposta anche di mostre importanti che fossero da stimolo per i giovani artisti della Fondazione.
«Sì, portai Basquiat, quando non era ancora “inflazionato”, ma anche gli espressionisti tedeschi, ma anche mostre legate a registi come Kiarostami. Rivendico anche il merito di avere trasformato Palazzetto Tito in spazio espositivo, riducendo gli uffici della Fondazione e di avere anche favorito gli “stages” all’estero dei nostri giovani artisti, a cominciare da Berlino. Per questo mi spiace un po’ quando sento delle difficoltà attuali in cui versa la Bevilacqua La Masa».
Ma forse la sua esperienza artistica più importante legata a Venezia è quella del lungo ciclo di mostre curate per la Collezione Guggemheim e che hanno portato anche a un’importante rivalutazione a livello internazionale dell’arte italiana del dopoguerra e dei suoi protagonisti. È un ciclo che si è concluso?
«Questo non sta me dirlo e tra pochi giorni conosceremo nel dettaglio la programmazione della Guggenheim per il prossimo anno per capirne la direzione. Certamente sull’arte italiana abbiamo fatto in questi anni un lavoro importante soprattutto per quello che riguarda gli anni Cinquanta e Sessanta. Penso alla mostra “Lucia Fontana tra Venezia e New York” portata poi anche al Guggenheim di oltreoceano. Ma anche a quella su Azimut, e su Tancredi - saldando un debito che la città aveva nei suoi confronti - fino all’ultima su Licini che ha riscosso un successo superiore anche alle mie aspettative. Si è cercato, sempre, di fare un lavoro di ricerca senza sacrifici però l’occhio del visitatore, ma evitando le mostre “blockbuster” sui notissimi storicizzati, che spesso lasciano il tempo che trovano».
Un merito indubbio che tutti le riconoscono è la grande capacità di allestimento e “impaginazione” delle sue mostre. Da cosa nasce?
«Fu Mazzariol agli inizi degli anni Ottanta a mandarmi a seguire il “cantiere” della grande mostra che Alberto Burri realizzò negli ex cantieri Cnomv della Giudecca e per questo la mostra di Burri di quest’anno alla Cini, chiude in qualche modo per me un cerchio. Ho sempre detto che la mostra per me non è un libro e per questo anche la filologia che sta dietro di essa per le scelta dei temi e delle opere non deve essere esibita, ma apparire come per caso, Quando allestisco una mostra il primo occhio che deve essere soddisfatto è il mio, negli accostamenti, nella scelta dei colori e in quella delle opere che devono essere funzionali anche all’allestimento espositivo, C’è un grande lavoro preparatorio che però deve tradursi in una grande semplicità, quasi minimalista, poi nel modo di presentare le opere».
Ora, da cinque anni, per lei c’è la Fondazione Cini e un’altra esperienza diversa legata a Venezia.
«Stiamo lavorando anche per acquisire archivi di artisti e protagonisti dell’arte soprattutto del Novecento e gli ultimi sono quelli di Ettore Sottsass e Carlo Cardazzo. Abbiamo anche riaperto al pubblico Palazzo Cini con la magnifica collezione di arte antica di Cini che dialoga così anche con le opere di arte contemporanea delle mostre che qui allestiamo, accanto naturalmente anche a quelle d’epoca. Sarà così anche con quella di Adrian Ghenie, pittore rumeno oggi in grande crescita, che testimonia anche il ritorno della pittura nel contemporaneo, dopo che la fotografia e la stessa arte concettuale sembrano ora segnare il passo».
Come vede la situazione culturale veneziana?
«In grande fermento, con il continuo arrivo di nuove istituzioni. La città però sta purtroppo perdendo l’occasione di fare di Porto Marghera un’area di grande sviluppo culturale e artistico favorendo l’arrivo di giovani disposti a lavorare e “produrre” qui, purché ci sia una politica di alloggi e studi disponibili a basso costo. È un peccato che non si colga questa opportunità». —
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