Zanotto, il cuoco che portò la cucina in tivù «Boccio Masterchef, ring di insulti e volgarità»

Parla il fondatore “stellato” del Tre Panoce di Conegliano, autore di best sellers sul radicchio. Cucinò alle Olimpiadi e nella “Grande Abbuffata” 

intervista



Non chiamatelo chef. Preferisce la parola cuoco che sa di tradizione, amicizia, condivisione. Ad Armando Zanotto, nato a San Polo di Piave nel 1941 e fondatore del ristorante Tre Panoce a Conegliano, primo cuoco stellato della provincia di Treviso, si deve la fama del radicchio rosso, l’exploit della gastronomia in tivù, il recupero dei piatti veneti. Zanotto nel 1968 fu pioniere con Ave Ninchi sul piccolo schermo, oggi si scaglia contro la traboccante cucina in tivù.

Lei boccia Masterchef & Co?

«Io rispetto colleghi di spessore tipo Cannavacciuolo, ma vedo nascere come funghi chef improvvisati che rendono la cucina un ring. Masterchef è una trasmissione che detesto: trasforma tutto in un triste spettacolo, volano insulti, si lanciano i mestoli contro i concorrenti e non viene spiegato come si prepara un piatto. Molti chef sono maleducati e volgari. Trascurano un elemento fondamentale del nostro lavoro: la gentilezza».

È questo il suo segreto?

«Anche. Bisogna accostarsi in modo garbato ai propri allievi. Così come è necessario accogliere i clienti con affabilità per farli sentire a casa. La stessa gentilezza va manifestata verso gli ingredienti».

Gli ingredienti?

«Certo: strapazzare, tagliuzzare, sbattere di qua e di là un asparago ha per risultato renderlo amaro. Io mi accosto con rispetto, come si farebbe con una bella ragazza. Bisogna usare alimenti di qualità e metterci amore. Tutto deve risultare armonico, come una musica, allora si crea un piatto stupendo».

Così ha incantato milioni di telespettatori?

«In vent’anni di tivù ho cercato di far conoscere le mie ricette, la cucina veneta, la passione. Tutto è partito nel 1968 quando sono approdato a Rai 1 nella trasmissione dedicata ai giovani cuochi. Conduceva Ave Nichi. Era simpatica, una brava attrice e un’esperta gastronoma. Poi ho lavorato con l’enologo Luigi Veronelli. Sono stato anche a Rai 2 e ho offerto il radicchio di Treviso a Enza Sampò».

Non una rosa?

«Le ho detto: ecco il fiore che si mangia, vederlo è un sorriso, mangiarlo il paradiso. È stato allora, agli inizi degli anni Ottanta, che questo prodotto oggi conosciuto in tutto il mondo ha iniziato a fare capolino nei ristoranti. Sono stati i milanesi a comprenderne le potenzialità. Nel frattempo avevo scritto un libro in cui insegnavo a cucinarlo in 600 modi, dolci compresi. Non ho trovato grandi riscontri, anzi, i colleghi trevigiani mi prendevano in giro. L’unico ad apprezzarmi fu l’editore Dario De Bastiani. Lui è mancato, ma io continuo a pubblicare i miei libri con i suoi figli».

Non fu lei a cucinare per “La Grande Abbuffata” di Marco Ferreri?

«Sì, nel 1973 il mio nome fu suggerito da Bepi Maffioli. Lavorai ai piatti di cui Mastroianni, Tognazzi, Piccoli e Noiret si ingozzavano fino a morire. Un’esperienza indimenticabile. L’anno prima avevo cucinato alle Olimpiadi di Monaco, dove furono uccisi undici atleti israeliani. Ci spaventammo molto».

Ha bei ricordi a cui tiene?

«Oltre alla ventennale collaborazione con Ave Ninchi ho lavorato a Canale 5 come conduttore di Buongiorno Italia. Là ho contribuito al lancio dell’allora studente squattrinato Marco Columbro che mi assisteva in cucina combinando guai. Ricordo Giuseppe Mazzotti di cui fui ospite in Rai nel 1977. Una persona straordinaria che ci ha insegnato a valorizzare il territorio, le montagne, il patrimonio artistico, le ville venete. A lui dobbiamo la riscoperta delle tradizioni popolari, cucina compresa».

Vini e piatti regionali, dunque.

«Un turista che arriva in Veneto si aspetta di assaggiare cibi tipici. Possediamo un patrimonio enorme che disdegniamo. Dove si trova oggi una buona minestra di risi e bisi o pasta e fasioi? La sopa coada? L’anatra rosta coa salsa pevadara, poenta brustolada, radicio ai ferri. Io ho girato il mondo, ho cucinato alle Olimpiadi di Roma nel ’60, fatto esperienze in hotel straordinari come il Danieli a Venezia, ma le prime ricette le ho imparate nell’osteria di mamma Nella, il Gambrinus a San Polo, dove preparava i gamberi di fiume che pescavo».

Ora ha appeso il cappello di cuoco al chiodo?

«Niente affatto. Nel 2014 ho affidato le “Tre Panoce”, che avevo aperto con mia moglie Ave, alla regia di Tino Vettorello. Io insegno ai giovani, sperimento ricette, scrivo libri. Di recente sono stato in Francia da ristoratori che volevano imparare i segreti della cucina italiana. Questo lavoro per me è passione che non finisce mai». —



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