Dopo il voto in Sardegna tra Meloni e Salvini c’è aria da resa dei conti
La convivenza tra loro si è fatta molto difficile, man mano che il (fallimentare) progetto salviniano di recupero dei voti persi a vantaggio di Fratelli d’Italia si scontrava con l’invocazione sempre più perentoria da parte di Meloni a un “riequilibrio” delle poltrone a livello amministrativo

Una rondine (sarda) forse non fa primavera – e il sinistracentro farebbe bene a tenerlo presente. Ma, sotto il profilo del meteo politico, nubi nerissime si stanno addensando sulla maggioranza. E le dichiarazioni rasserenanti di Antonio Tajani, secondo cui «per il governo non cambia nulla», danno l’impressione di una repentina excusatio non petita, in seno a un contesto di autosabotaggio tra i leader del destracentro. Il nodo è sempre quello: le relazioni estremamente burrascose fra Giorgia Meloni e Matteo Salvini.
La convivenza tra loro si è fatta molto difficile negli ultimi tempi, man mano che il (fallimentare) progetto salviniano di recupero dei voti persi a vantaggio di Fratelli d’Italia si scontrava con l’invocazione sempre più perentoria da parte di Meloni a un “riequilibrio” dei posti e delle poltrone a livello amministrativo.
E anche la diffidenza reciproca, va da sé, è cresciuta nel tempo, come conferma il sospetto che i salviniani abbiano incentivato di nascosto il voto disgiunto. E, in effetti, i voti raccolti da Truzzu sono minori della somma di quelli delle liste della coalizione che lo sosteneva (o, meglio, che avrebbe dovuto farlo). Ciò non toglie, in ogni caso, che FdI abbia un problema di classe dirigente.
Meloni sembrava averlo ammesso, a denti strettissimi, ma è ricascata nel riflesso pavloviano. E di fronte a un governatore uscente – un incumbent, si direbbe negli Usa – come Christian Solinas che aveva dato varie prove di inefficienza (in primis, nella gestione dei fondi del Pnrr), ed era per giunta zavorrato da vicende di natura giudiziaria, la premier è voluta andare alla prova di forza contro l’antagonista interno Salvini.
E imporre un suo sodale, Paolo Truzzu, che arrivava bocciato fresco fresco dal terzultimo posto nella classifica di gradimento dei sindaci – al punto che a Cagliari, dove lui governava, è stato surclassato nei voti da Alessandra Todde. Ma la “generazione Atreju” (a cui appartiene, giustappunto, anche Truzzu) e il familismo di stretta osservanza – ossia l’idea dei cerchi magici che devono garantire la fedeltà assoluta – quali fondamenta del melonismo cominciano a mostrare più di uno scricchiolio.
L’errore di Meloni – che non vuole “mettere la faccia” su questa sconfitta – si è rivelato quindi duplice: la candidatura sbagliata (e Truzzu ieri si è pubblicamente assunto delle responsabilità in tal senso) e la volontà evidente di umiliare la Lega. Da dove Salvini cerca di scaricare sulla premier tutte le colpe per far dimenticare l’esito elettorale al di sotto del 4% e il sorpasso operato nei suoi confronti da Fi.
La leadership salviniana risulta ormai nel mirino e il voto sardo sembra dare nuova spinta a coloro – soprattutto in Veneto – che chiedono un “ritorno alle radici” della Lega quale partito macroregionale e “sindacato del territorio” del Nord (come ha ribadito nelle scorse ore l’assessore Roberto Marcato).
In questo clima da resa dei conti, la strategia del segretario leghista risulterà plausibilmente quella di intensificare ulteriormente l’attività di logoramento e il “lavorio ai fianchi” di Meloni, ponendo altresì di nuovo la questione del terzo mandato per i presidenti di Regione e i sindaci dei grandi Comuni. Mentre la presidente del Consiglio ha rimandato – proprio per vedere cosa accadrà nelle prossime settimane (a partire dal voto regionale in Abruzzo) – la decisione sulla sua candidatura alle europee.
Così, se la guerriglia di Salvini salirà di tono, lei scenderà in campo per misurare direttamente il proprio consenso, fino alla possibilità di valutare se rimettere in discussione la coalizione. E, magari, pure il governo: ovvero, l’«arma fine di mondo».
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