Lavoratori stagionali, la storia di Sara: «In Italia rimane un gap culturale»
Di origine triestina, oltre alle difficoltà materiali punta il dito contro la «mentalità» diffusa nel settore: «In Francia sono più professionali»

Le poche tutele, le ambiguità dei contratti e poi lo spettro, tanto più angoscioso quanto tollerato come fosse una presenza ineluttabile, del lavoro in nero. Ma soprattutto una mentalità che fatica a stare al passo con i tempi, figlia spesso di pregiudizi e di luoghi comuni diffusi man mano negli anni, oggi cristallizzati in un’atmosfera che fatica a incontrare il consenso delle generazioni più giovani.
Anche nelle voci dei lavoratori stagionali del territorio giuliano si ritrovano tante riflessioni che, ormai, si è abituati ad ascoltare ogni volta che si avvicina l’estate. Ma con un’importante e inattesa differenza: a pesare davvero, nella scelta o meno di impegnare alcuni mesi sulle spiagge o i vigneti locali, sono fattori meno concreti e piuttosto culturali, che in quanto tali rischiano di sfuggire – e infatti il più delle volte sfuggono – al radar del dibattito pubblico.
«Ci fanno lavorare in condizioni di sforzo eccessivo», dice un ex lavoratore stagionale nel settore agricolo tra la provincia di Udine e quella di Gorizia. La sua testimonianza è un fiume di osservazioni su ciò che va male o non va come dovrebbe: poca flessibilità da parte dei datori di lavoro, atteggiamenti diversi a seconda della provenienza geografica, le difficoltà di organizzazione a causa dei continui cambiamenti cui si è esposti.
«La sicurezza in certi casi non esiste», si riscontra ancora, con un cenno alle «mansioni che non dovremmo fare per la paga oraria che prendiamo», alle «variazioni in continuazione dell’orario di lavoro senza sufficiente preavviso», per non parlare delle tensioni che si acuiscono quando il meteo non assiste.
Insomma, uno spaccato realistico – per quanto inevitabilmente influenzato dalla sensibilità personale – degli ostacoli che molti si trovano a dover affrontare quando decidono di intraprendere questa strada. Dietro affiora talvolta un amarissimo sarcasmo, dettato dalla convinzione di chi sa che certe cose non cambiano dalla mattina alla sera.
Ma è nelle riflessioni di Sara – nome di fantasia di una quarantaquattrenne triestina che ha chiesto di rimanere anonima – che emerge la dimensione culturale cui si faceva riferimento. Ed emerge per una ragione molto semplice: Sara ha lavorato sia in Francia che in Italia, dunque ha potuto constatare quella che a suo dire è un’evidente differenza di trattamento verso i lavoratori stagionali. Anche lei dice di aver lavorato «nell’agricoltura», con un riferimento particolare ai mesi di vendemmia.
«A me pare ovvio che gli italiani preferiscano andare in Francia. Mi è piaciuta la loro professionalità», racconta, indicando con questa parola un insieme di attitudini che, alla fine della giornata, fanno la differenza. Attitudini, secondo Sara, più raramente riscontrabili in Italia, tant’è che non si fa problemi a spendere l’appellativo «medioevo» per riassumere il concetto e l’arretratezza culturale della Penisola.
«C’è ancora una mentalità per cui a volte lavorare è come essere schiavi. Ma essere un capo non significa spremere i propri dipendenti e maltrattarli, un vero capo è la persona invisibile che sta dietro una squadra di successo». Come dirlo meglio. Prima che i contratti e le tutele, secondo Sara sta qui il cuore del problema.
Ed è qui che bisogna agire per rendere più attrattiva questa scelta per i giovani, che altrimenti non possono che liquidarla come anacronistica, inaccettabile. Tante aziende l’hanno già fatto e la rotta, lentamente, sembra sia stata invertita. Ma forse, ascoltando voci come quella di Sara, non è ancora abbastanza.
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