Bilancia morto di Covid in carcere «Dio mi dia un attimo per le scuse»

Il serial killer era detenuto a Padova. Don Pozza: «La memoria delle vittime lo ha tenuto in ostaggio»

PADOVA

Donato Bilancia, il serial killer condannato a 13 ergastoli per diciassette omicidi e 16 anni per un tentato omicidio, è morto per Covid nel carcere Due Palazzi di Padova dove scontava la pena. I delitti attribuiti a Bilancia sono avvenuti tra il 1997 e il 1998 tra la Liguria e il Piemonte. Dopo aver scontato i primi anni di prigionia nel carcere di Marassi a Genova, Bilancia è stato trasferito a Padova. Il “mostro dei treni” o “killer delle prostitute” come veniva definito, è stato arrestato nel 1998: a tradirlo fu l’auto usata per alcuni suoi spostamenti. Era nato a Potenza nel 1951. Era positivo da un paio di settimane e chi lo conosce sostiene che abbia scelto di lasciarsi andare.

Giusto un anno fa Bilancia prese parte al concerto di Natale in carcere. Dopo mezzo secolo, come raccontò lui stesso, aveva ripreso in mano la chitarra. Dopo aver suonato diversi brani con altri componenti della band del Due Palazzi, eseguì in assolo Imagine di John Lennon. In quell’occasione Bilancia aveva potuto raccontare qualcosa della sua esperienza in carcere: «Il primo periodo» ricordava, «è stato il più duro: dodici anni in isolamento. Non potevo uscire, non potevo vedere nessuno, ero solo in una stanza vuota tutto il giorno. Per passare il tempo facevo un po’ di ginnastica». Poi l’isolamento è terminato, e per Donato Bilancia è iniziato un nuovo percorso. Frequentava tutte le attività, che giudicava molto utili: «Possiamo incontrarci, parlare e fraternizzare tra noi» raccontava, «si instaurano delle relazioni. E questo anche con i volontari che vengono qui. Queste attività ci aiutano a non morire dentro». Bilancia in carcere si è anche diplomato in ragioneria e ha ottenuto la laurea in Progettazione e gestione del turismo culturale. Oltre a suonare la chitarra, frequentava anche il corso di teatro, come ricorda Ornella Favero, direttrice della rivista Ristretti Orizzonti, che di Bilancia dice: «Sembrava una persona disperata».

«È proverbiale che l’erba cattiva non muoia mai. “Vècio, stai tranquillo e sereno: l’erba cattiva non muore mai. Ci rivedremo qui presto!” Invece, stavolta, è morta: ammesso che sia nata cattiva. Restano queste le mie ultime parole dette a Donato Bilancia, l’uomo che negli anni Novanta ha reso la cronaca nera italiana colore pece da quanto nera l’ha fatta diventare»: inizia così l’intenso ricordo che ieri pomeriggio don Marco Pozza, sacerdote del carcere Due Palazzi, ha dedicato a Bilancia. «L’ho conosciuto dieci anni fa, sepolto dentro una cella d’isolamento» ricorda don Pozza, «restio, inselvatichito, feroce nello sguardo. Le prime volte, in cella, mi impauriva, mi allontanava, mi respingeva. S’arrabbiava e urlava senza un apparente motivo. Un giorno, poi, mi chiese il perché della mia strana scelta di dargli del lei, di chiamarlo signor Donato, di non rivangargli quel passato omicida così ingombrante. “Tu mi vuoi far crepare, belìn” mi disse alla genovese». Tante le persone, sottolinea don Pozza, che hanno “scommesso” su quell’uomo, per recuperare un frammento di umanità. Sforzo ripagato. «Il suo male fatto lo conoscono tutti, il suo bene fatto» rileva il prete, «resterà nel cuore di chi l’ha accompagnato. E rimarrà sepolto, come voleva che restasse, com’è rimasto lui nel cuore dell’Italia (quasi) intera». La memoria delle vittime, di una in particolare, ha tenuto in ostaggio ben più del ferro e del cemento Donato Bilancia in questi anni: «Andrò all’inferno» diceva a don Pozza, «ma prego Dio che mi dia un istante di tempo per passare da loro a chiedere scusa».

Il ricordo di chi lo ha incontrato in carcere è profondamente dissonante rispetto all’efferato serial killer che ha seminato morte e disperazione: «Da tre anni si era unito al laboratorio teatro carcere» racconta Maria Cinzia Zanellato «era un paradosso vivente. All’inizio era stato molto difficile entrare in contatto con lui, un uomo freddo sul piano emozionale, poi aveva cominciato a relazionarsi con gli altri e nel gruppo aveva trovato un’altra parte di sé, aveva trovato il modo di esprimere la sua umanità. Era rimasto un anziano con una portata di vita dal peso enorme che cercava di affrancarsi dai delitti terribili che aveva commesso. Gli dicevo che il teatro per noi non è esibizione ma consapevolezza».

Nel mondo del volontariato interno al Due Palazzi, ieri si rincorrevano i messaggi: «Un anno fa aveva chiesto di poter uscire poche ore per andare a trovare un ragazzo disabile che sosteneva economicamente» ricorda Nicola Boscoletto della Cooperativa Giotto «ma gli era stato negato. Credo che da allora avesse mollato la presa. Mi rendo conto che la sua fosse una figura ingombrante, che in molti si siano preoccupati di cosa avrebbe detto la gente di fronte a un permesso, ma voleva solo fare del bene. Per questo, se nessuno che provvederà a lui, vorremmo farci carico delle sue esequie». —

elena livieri

simonetta zanetti

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