Bush e l'Italia che non conta

A Roma Berlusconi presenta al vecchio amico Bush la nuova politica estera italiana, cercando di ravvivare la «diplomazia degli affetti». Ma il clima è lontano dai tempi di Pratica di Mare, quando il capo del governo italiano si proponeva come mediatore tra Nato e Russia; o da quelli dell’Iraq post-invasione dove, convinto di incassare i benefit politici senza pagare prezzi troppo alti, il Cavaliere mandava le nostre truppe a partecipare a quella che doveva essere una «missione compiuta». I tempi sono cambiati: se non altro perché Bush è a fine corsa. Lo si è visto anche nella vicenda del «5+1», nel quale Roma vuole ora entrare. Un ruolo cui l’Italia, legata a stretti rapporti commerciali con Teheran, rinunciò durante il precedente governo Berlusconi, deciso a non entrare in rotta di collisione con Washington sulle sanzioni. Lasciando, allora, onori e oneri alla sola Germania, come l’Italia grande partner commerciale dell’Iran. Berlino, che sfrutta quella presenza anche per ottenere un seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu, ha messo il veto sulla richiesta di Roma.


E Bush ha potuto poco di fronte al no della Merkel; e di quelli, meno espliciti ma non meno tenaci, di Francia e Gran Bretagna.

 

Per rendere efficaci le misure contro l’Iran la Casa Bianca conta sui tedeschi: mentre teme che Roma non voglia, o non possa, avere la stessa fermezza. Tanto che la Casa Bianca fa sapere che, se vuole entrare, l’Italia deve mettere da parte i suoi cospicui interessi commerciali, export e petrolio, e rischiare sul piano della sicurezza nazionale. Ovvero mettere nel conto che potrebbero esserci ripercussioni sul mercato energetico e per i nostri militari in Libano e Afghanistan.

 

Per sbloccare il «no», Roma ha messo nel piatto la modifica dei caveat proprio in Afghanistan, come la riduzione da 6 a 72 ore del limite entro cui il governo italiano deve rispondere alla richiesta di intervento militare fuori zona.

 

Oltre che l’invio di carabinieri per addestrare la polizia afgana e, carta pesante, il possibile l’impiego dei cacciabombardieri Tornado. Scelta che ci proietterebbe nettamente dentro la guerra, dal momento che, oltre a proteggere le nostre truppe, oggi affidate alla copertura aerea britannica e tedesca, gli aerei italiani potrebbero essere impegnati in altre operazioni.

 

Ma mostrarsi subito allineati con la Casa Bianca non ha giovato alla trattativa. Tanto che l’incondizionato «sì» alla richiesta americana di un maggiore impegno militare nel «Paese dei Monti» si è risolto in un’adesione senza contropartita, che non esalta certo l’interesse nazionale italiano.

 

Bush può promettere a Berlusconi solo maggiore coinvolgimento, attraverso la presidenza del G8 che l’Italia assumerà tra poco, nelle non facili relazioni tra Cremlino e Casa Bianca.

 

Poco. Anche perché a novembre l’America avrà un nuovo presidente: se a vincere fosse il democratico Obama, Roma potrebbe essere costretta a rivedere la sua strategia. Obama potrebbe andare a vedere direttamente le carte di Teheran e impegnare l’America, dopo il lungo black-out politico della doppia amministrazione Bush, nel negoziato israelo-palestinese.

 

Per Berlusconi verrebbe meno una preziosa sponda internazionale e la nuova politica estera di Roma sarebbe ridotta all’irrilevanza.

 

Come altri, la destra italiana attende inquieta i risultati delle elezioni americane di novembre. Nel frattempo va in scena il già visto.

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