Chi eccede in movida, chi in paura: siamo rimasti quelli che eravamo

Uno dei mantra più abusati della quarantena, “ne usciremo migliori”, mostra oggi la sua inconsistenza e  i comportamenti ai quali assistiamo, in tutte le loro sfaccettature, dimostrano semmai il contrario

Cosa succede nella nostra testa, nelle nostre azioni, nell’attraversamento della Fase 2, nel “cammino verso il fuori” che sta presentando limiti e problematiche comportamentali, e dimostra che illusione sia stato pensare che 60 giorni avrebbero potuto modificare il nostro modo di essere?

In realtà, per mettere in atto un cambiamento è necessario innanzitutto desiderarlo, o perlomeno accettarlo, mentre ciò che è avvenuto nei comportamenti collettivi è stata l’assenza di riflessione e soprattutto la tendenza, di una parte del Paese, a ripristinare comportamenti rituali che certamente hanno un valore relativo. Un’abitudine a pensare alla socialità solo nei suoi riti paradossali, carichi di demagogia e tendenti, in ogni caso, al culto dell’eccesso e della trasgressione.

Cosa accade, dunque, ore? Vediamolo per temi.

Mascherina, regole, guanti e distanze

Il perché si sia innescata una polemica sull’uso della mascherina è cosa che riguarda un atteggiamento psicologico complesso. Non riguarda l’oggetto in quanto tale, che serve ed è accettato in tutto il mondo come strumento di protezione, di prevenzione, adultità. Un aspetto così semplice va a toccare il Paese Italia, spesso incapace di rispettare le regole e per questo ritenuto, anche a livello internazionale, poco affidabile. Vedi lo spaccio delinquenziale e arrogante, salvaguardato e accettato da un numero consistente di consumatori. Un mercato di consumo continuato anche durante il lockdown. In altri Paese dove si osservano le regole sarebbe inaccettabile.

La mascherina appesa all’orecchio, tenuta in mano come un borsello, appesa alla cintura dei pantaloni come una colt, tenuta sotto il mento, buttata a terra e abbandonata. La mascherina l’abbiamo accettata inizialmente, poi rifiutata come inutile. Il nostro inconscio collettivo ha scisso il pericolo con la spregiudicatezza e la rimozione.

Si può uscire, aprire tutto, compresa la nostra testa che sembra non aver imparato nulla. La mascherina e la sua messa in discussione diventa simbolo del costume del nostro Paese, luogo perenne di battaglie ideologiche che incoraggiano non solo un principio di inciviltà, ma anche un certo narcisismo. Le scelte ideologiche individuali, quelle che escono da problematiche legate al rispetto dei ruoli e all’insofferenza verso l’autorità, stanno prendendo corpo con vigore. È la mancanza di umiltà nell’affrontare un problema planetario di cui poco in realtà si conosce. La mascherina copre e ci obbliga al rituale di un codice collettivo, a cui non siamo più abituati.

Il rifiuto dell’esperienza

Dovremo ancora ricordarci ciò che abbiamo vissuto in questi ultimi mesi, carichi di pathos, di messaggi di solidarietà, di canti e musica dai terrazzini, la lunga processione delle bare e le nuove star che sono virologi ed epidemiologi. Un lungo periodo fatto di morti e contabilità quotidiana. Tutto reale, sono più di 30mila i decessi, e ci sono i contaminati, i danni nascosti e non dichiarati di che cosa il Covid-19 fa sul nostro corpo ancor più che sulla mente.

Contenere la memoria e accettare ciò che abbiamo vissuto sembra un difficile compito per la collettività. Diversamente non si spiegherebbe la folla gomito a gomito, con l’assenza delle mascherine, una sorta di ribellione alla verità.

La paura porta a mettere in atto i suoi meccanismi, come il rifiuto, l’insofferenza e l’intolleranza. Così stiamo precipitando a non controllare le masse sugli eventi, il corpo a corpo nelle movide, le code compulsive ai centri commerciali, un bisogno non tanto d’incontrarsi per comperare un mobiletto o le lenzuola, ma un bisogno irrefrenabile di ritenere l’evento vissuto concluso e nemmeno tanto compreso.

In realtà la psiche presenta i suoi risultati a lungo termine, quando alla sera ci sembrerà inutile e indifferente andare a fare la movida. È vero, sono fasce generazionali, multiple, quelle del corpo a corpo, quelle che nella fase di contenimento si sono nutrite di Netflix, di Tinder, di droghe prese sotto banco, di Zoom esagerati e demagogici, contenitori di una solitudine evidente che non si risolverà certamente con il culto del corpo a corpo.

L’esperienza la puoi rifiutare, ma l’hai vissuta.

Siamo incapaci di pensare a un modo diverso distare con gli altri: responsabilità profonde le hanno internet, il mondo mediatico che non insegna, non cambia, ma tende a riprodursi.

I cambiamenti come difficoltà

Gradualmente, ma con velocità poderosa: sembra quasi un paradosso. I cambiamenti sono la parte più impegnativa per il genere umano che tende a consolidarsi nelle abitudini, perché comprime l’incertezza, la paura del futuro. È il comportamento tipico dell’anziano che rifiuta il cambiamento perché inconsciamente prigioniero della consapevolezza del tempo, fragile e precaria la capacità di pensare al futuro. Essere vecchi non è una questione d’età, ma di atteggiamenti. È una parte culturale, del resto l’Europa è un continente molto vecchio.

La paura del futuro ci ha resi radicalizzati nelle abitudini, per cui l’esperienza della pandemia non sta dando i risultati previsti, quelli che molti hanno sperato. Non ci sono, per ora, codici di cambiamento verso gli stili di vita, nuove tutele verso la natura, l’inquinamento, la solidarietà, la collaborazione tra opposte visioni politiche.

Nella Fase 2 la tendenza non è certamente cambiare, ma ripristinare, C’è una sorta di ossessione a cercare di fare ciò che si faceva prima. Un esempio clamoroso sono i corpo a corpo della movida, le distanze e le code, i rituali mantenuti e precisi del passato che sono l’evidenza che il virus ci ha colpiti e affondati, ma non ci ha cambiati perché l’errore che stiamo facendo è di aver associato la Fase 2 con la fine della pandemia.

Il cambiamento sembra un meccanismo impossibile, per ora, da mettere in atto, perché affinché avvenga dovremmo essere capaci di rivivere quei momenti terribili fatti di incertezza, ma corroborati dalla caparbietà e dai sogni.

Chiusi in casa, la paura degli altri

Una fascia importante del Paese, in totale antitesi con le masse vogliose di riprendersi la notte, le piazze, gli eccessi eccetera, è composta da coloro che guardano con angoscia il dover uscire, il guardare il fiume umano a contatto. Sono quelli che hanno paura degli untori incontrollati. Ci troviamo così di fronte a un’intolleranza verso la vita precedente, sofferenza e dolore per le emozioni vissute durante la pandemia, la perdita di stabilità e il consolidamento di un nuovo equilibrio che però riguarda la perdita di leggerezza e di fiducia verso il mondo esterno.

Dopo la paura, c’è la difficoltà nel ricucire un nuovo modo di gestire la vita, che nel frattempo si è ristretta nel pessimismo e nella sfiducia verso gli altri. Dopo la paura, salvata la vita, è in atto il pregiudizio verso noi stessi. Insonnia, nervosismo, rifiuto, angoscia per il futuro, insicurezza sociale, delusione e malinconia: tutti sintomi che si presentano a intermittenza nelle nostre giornate, dove ci sentiamo schiacciati dagli eventi.

Non è positivo però nemmeno l’eccesso di reclusione, di regole e controllo, che ci può portare ad allontanarci dalla realtà. Usciamo, facciamo passi attorno al mondo, ripristiniamo qualche via, entriamo in qualche parco, guardiamo le vetrine anche se chiuse. Respiriamo felici, pensiamo a un nuovo modo di essere, ma teniamo la barra stretta sulle regole, distanti, igienizzati, responsabili a tutelare gli altri. Impariamo ad accettare queste mediazioni, senza creare un baratro tra noi e gli altri. —

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