Cinema al 100 per cento, ecco le recensioni dei film usciti il 26 gennaio
Quattro anime in pena e un traghettatore nel nuovo film di Paolo Genovese, “Il primo giorno della mia vita”. Esistenzialismo surreale in “A letto con Sartre” di Samuel Benchetrit. Ursula Meier gioca con il dramma familiare nel film “La ligne – La linea invisibile”. E, infine, due documentari: “Hometown – La strada dei ricordi” è un dialogo tra il regista Roman Polanski e il fotografo Ryszard Horowitz sul senso della memoria; “Trieste è bella di notte”, diretto a sei mani da Matteo Calore, Stefano Collizzolli e Andrea Segre svela il dramma delle riammissioni informali dei migranti sulla rotta balcanica

Regia: Paolo Genovese
Cast: Toni Servillo, Margherita Buy, Valerio Mastandrea, Sara Serraiocco, Gabriele Cristini
Durata: 121
Arianna (Buy) è una poliziotta che serba un dolore antico dentro il cuore. Napoleone (Mastandrea) motiva gli altri ma ha un inspiegabile vuoto dentro. Emilia (Serraiocco) è una ex campionessa di ginnastica costretta in sedia a rotelle e Davide è un ragazzino bullizzato costretto dai genitori a fare lo youtuber.
Sono quattro anime in pena, sull’orlo della disperazione: anzi quell’orlo lo hanno già superato. Un uomo misterioso (Servillo) li avvicina nella stessa notte piovosa e chiede loro una settimana di tempo per farli nuovamente innamorare della vita, perché possano sentire ancora quella nostalgia per la felicità perduta. Con “Il primo giorno della mia vita”, Paolo Genovese porta a compimento un percorso cominciato qualche anno con “Una famiglia perfetta”, passando per “Perfetti sconosciuti” per arrivare, infine, al prorogo naturale di questo suo ultimo lavoro, ossia il metafisico “The Place”.
Una riflessione che si alimenta di realtà parallele, mistificazioni, segreti e bugie, scambio di binari fino alle ucronie di “Perfetti sconosciuti” e, ora, di questa parabola sulla vita e sulla morte, dominata dalle funeree volontà suicidarie dei protagonisti. Sprofondato in una atmosfera limbica e senza tempo (un albergo fatiscente, una Roma inquadrata dalla strada e dalle sue stazioni, televisioni a tubo catodico), Genovese sembra andare in una direzione esistenzialista nella quale l’essere umano è fungibile come tutte le cose, non necessario e sostituibile.
Ma gli manca il coraggio di portare a termine la riflessione, come se sentisse il bisogno di alleggerire la materia con innesti quasi favoleggianti che ricordano “La vita è meravigliosa” ma che, alla fine, stonano con una storia che non riesce mai ad esprimere l’autentica disperazione di cui sono portatori i protagonisti.
Tratto dall’omonimo romanzo scritto dallo stesso Genovese, “Il primo giorno della mia vita” rimane impigliato in una sceneggiatura quasi fiacca nel suo incedere declamante, tanto da frustrare le interpretazioni di attori come Servillo, Mastandrea e Buy, mai così inadeguatamente sottotraccia. E con almeno un personaggio interessante (Vittoria Puccini) che rimane solo abbozzato, così come la sua relazione con l’uomo misterioso. Ne esce un dramma incompleto, depotenziato e un po’ ingiallito. (Marco Contino)
Voto: 5
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Regia: Samuel Benchetrit
Cast: François Damiens, Ramzy Bedia, Vanessa Paradis, Gustave Kervern, Valeria Bruni Tedeschi
Durata: 107’

“Ho paura di tornare alla vita normale”, confessa Suzanne (Vanessa Paradis) dopo aver interpretato Simone de Beauvoir in una pièce teatrale amatoriale. “Potremmo rifarne un'altra”, le risponde Jacky (Gustave Kervern) che ha appena interpretato Jean-Paul Sartre. “Un’altra esibizione o un’altra vita?”, ribatte lei. “Beh … è la stessa cosa”, sentenzia Jacky.
In questo dialogo tra due dei protagonisti di “A letto con Sartre” è racchiuso il senso di questa commedia surreale firmata da Samuel Benchetrit. L’arte, la tenerezza di pochi versi alessandrini, la sensibilità poetica allignano anche nei cuori più insospettabili, confondendosi, a volte, con la vita. Succede a uno sgangherato manipolo di gangster portuali nel nord della Francia, guidati da Jeff (François Damiens) che, da qualche tempo, tra un racket e l’altro, compone versi d’amore per una cassiera di un supermercato, trascurando la moglie (Valeria Bruni Tedeschi) e la figlia Jessica.
Gli altri scagnozzi Jesus (JoeyStarr) e Poussin (Bouli Lanners) ricattano i compagni di classe quest’ultima perché partecipino alla sua festa di compleanno. E poi c’è Neptune (Ramzy Bedia) che, come un Cyrano, aiuta il proprio capo a conquistare la cassiera e Jacky che, per recuperare un credito, si innamora di una aspirante attrice e si fa coinvolgere nello spettacolo teatrale di cui al dialogo citato.
“A letto con Sartre” mette in scena “7 psicopatici” (comprese moglie e figlia di Jeff) che, a un certo punto della loro vita, sono fulminati dall’arte e dalla tenerezza. Sul filo dell’assurdità, le loro esistenze mutano, si colorano, restano esposte al vento della costa pronte a volare via (anche se, alla fine, restano comunque ancorate alla realtà dura di cui si alimentano da sempre).
Benchetrit declina in una stessa sequenza criminalità ed esistenzialismo: il più delle volte è una combinazione sorprendente con immagini che restano (la storia di Jacky è, forse, quella più suggestiva nel sincretismo di situazioni opposte), altre volte il parossismo tende un po’ ad “inchiodare” il ritmo del film. Che ha, però, un cuore pulsante e dei protagonisti ai quali è facile affezionarsi. (Marco Contino)
Voto: 6,5
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Un film di Matteo Calore, Stefano Collizzolli, Andrea Segre
Durata: 75’

Lo chiamano “the game” ma non è un gioco; suona, anzi, come un tragico ossimoro. È il tentativo, reiterato e disperato, dei migranti asiatici di raggiungere il nostro Paese attraverso la rotta balcanica: Bosnia, Croazia, Slovenia e, infine, Italia, a un passo da Trieste. Giorni e notti di cammino attraverso le montagne, con la neve e con il freddo, spesso senza cibo. Con 30 chili sulle spalle e la paura, dopo un viaggio estenuante, di essere respinti senza poter nemmeno presentare domanda di asilo.
“Trieste è bella di notte”, il nuovo documentario firmato da Matteo Calore, Stefano Collizzolli e Andrea Segre (fondatori del collettivo padovano Zalab), affronta il tema delle cosiddette “riammissioni informali”, affidando alle testimonianze di chi ha provato più volte il “game” la ricostruzione di uno strumento già dichiarato illegittimo da un tribunale, eppure ancora permesso e, persino, incentivato dai governi in quella costante tensione tra norme scritte, sentenze e prassi che innerva la politica dei respingimenti. Il documentario, presentato in anteprima al Trieste Film Festival e ora in tour in tutta Italia accompagnato dai suoi autori, prova a fare luce sue queste “riammissioni informali”.
Si tratta di una pratica che ha trovato larga diffusione nel 2020, durante la pandemia e, dunque, in un periodo in cui l’attenzione era catalizzata altrove. Oggi viene nuovamente incentivata nonostante una sentenza del Tribunale di Roma l’abbia dichiarata illegittima.
In sostanza, chi arriva in Italia dai Balcani viene preso, non registrato e, quindi, “riammesso”, cioè riconsegnato alla polizia slovena. È una sorta di respingimento non cruento ed è molto diffuso. Il documentario custodisce i racconti dei migranti che ce l’hanno fatta - ospiti di “Casa Malala”, il centro di accoglienza affacciato sulla caserma della polizia di frontiera al valico di Fernetti a Trieste - e di quelli accampati in un casale abbandonato a Bihac, in Bosnia, in attesa di partire per il “game” tra sogni e, soprattutto, paure.
Molto di ciò che hanno vissuto è vicino all’inferno, qualcuno lo definisce “l’Apocalisse”: maltrattati e spogliati di tutto dalla polizia croata, alcuni hanno ritentato il “game” anche 30 volte. Se il documentario ha il pregio di far emergere un tema conosciuto da pochi, naturalmente oggetto di conflittualità e ideologie, sul piano strettamente estetico il suo incedere è piuttosto convenzionale e, nella serialità dei racconti, alternati ad autentiche immagini riprese con i telefonini dagli stessi migranti, finisce per “raffreddare” una materia che, al contrario, dovrebbe caricarsi di emotività.
Resta quella sensazione limbica di fondo che, poi, è quella condivisa dai migranti (salvi ma inconsapevoli di ciò che li aspetta oppure in attesa di partire per l’ennesimo viaggio la cui sorte è sempre incerta) che, forse, avrebbe dovuto essere sciolta in una riflessione più profonda anziché in una, pure urgente, osservazione di una realtà dai contorni ancora molto ambigui. (Marco Contino)
Voto: 5,5
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Regia: Ursula Meier
Cast: Stéphanie Blanchoud, Valeria Bruni Tedeschi, Elli Spagnolo
Durata: 101’

Margaret è una trentacinquenne con una vita turbolenta, di delusioni artistiche e sentimentali, spesso sfociate in violenze inflitte e subite, che l'hanno portata a una fragilità emotiva evidente. Dopo un'accesa discussione con sua madre, quest'ultima decide di denunciarla. Nell'attesa che venga celebrato il processo, il giudice impone a Margaret un ordine restrittivo: per tre mesi la donna non potrà in alcun modo entrare in contatto con la madre, né stare a una distanza inferiore a cento metri dalla casa dove abita la donna. Una distanza che Marion, la più giovane delle sorelle di Margaret, dipinge intorno alla casa, rendendo visibile il solco invisibile tra le persone.
La regista franco-elvetica Ursula Meier si dedica ancora, dopo “Sister”, a indagare e dipingere i difficili rapporti familiari. Nuclei non convenzionali, molto al femminile, in cui i ruoli si invertono e le figlie appaiono molto più responsabili della madre, le giovani più ancora delle adulte, le donne più degli uomini: una figlia si rivolta contro la madre, la madre si disinteressa delle figlie, il tutto tra tangibili differenze di età.
Non convenzionale anche la narrazione di Meier, che inizia con la rissa in slow-motion, i cui contorni non sono chiari. Vecchie ruggini legate a maternità subite, carriere artistiche mancate il cui esito la madre rinfaccia alle figlie, e tutto attorno una aridità affettiva che porta violenza d’un lato, fuga mistica nella religione dall’altro.
E così, come le sue protagoniste, la regista compie un difficile cammino di equilibri e di non detti, che non sempre giunge al punto, per una predilezione per le afasie, i silenzi, le ellissi, che stuzzicano lo spettatore, ma a volte lo lasciano confuso.
La violenza della rabbia si contrappone alla disistima e al disinteresse, all’egoismo ammantato di finta sbadataggine, in cui il ruolo della madre, interpretato da Valeria Bruna Tedeschi (quasi prigioniera ormai di una maschera caricaturale) diventa paradigmatico. (Michele Gottardi)
Voto: 6
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Regia: Mateusz Kudla e Anna Kokoszka-Romer
Cast: Roman Polanski e Ryszard Horowitz
Durata: 75’

Nella settimana del “Giorno della memoria” in memoria delle vittime della Shoah, televisione e cinema propongono sempre vecchi e nuovi appuntamenti. Tra questi il delicato documentario “Hometown – La strada dei ricordi”, diretto da Mateusz Kudla e Anna Kokoszka-Romer, ma tutto incentrato sull’incontro tra il grande regista Roman Polanski e il non meno celebre fotografo Ryszard Horowitz. Entrambi originari di Cracovia, hanno costruito la loro amicizia distanti dalla Polonia, in giro per il mondo. Così decidono di fare ritorno in Polonia per condividere i ricordi più personali, legati alla loro infanzia e alla loro giovinezza.
Il loro passeggiare fa emergere ricordi e storie drammatiche: l’infanzia, la sopravvivenza al genocidio nazista, la guerra. Horowitz è stato uno dei bambini salvati da Oscar Schindler e Polanski è stato tenuto nascosto da una povera famiglia di contadini cattolici, in un piccolo villaggio fuori Cracovia.
I due giovani registi lasciano campo libero alle due star, che non hanno bisogno di indicazioni su cosa dire e cosa fare, li osservano e li filmano senza invadere lo spazio: pian piano i ricordi e i primi piani si alternano alle immagini di repertorio di Cracovia prima della guerra alternate a quelle di Auschwitz.
Ma tutto il racconto è sul filo agrodolce dell’amarcord, in cui i luoghi, dal cimitero ebraico alla casa in cui Polanski si rifugiò, hanno un potere evocativo alto. E tutto narrato e dialogato senza vittimismo, ma con una sottile vena di umorismo, molto yiddish, che rende il documentario una piccola grande testimonianza. (Michele Gottardi)
Voto: 7
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