Coronavirus, l'infettivologo: "Emilio mi ricordava il nonno. Io gli ho detto che sarebbe tornato a casa"
L’infettivologo Scaggiante, dell’Azienda ospedaliera di Padova racconta la “trincea”. "Non è etico pensare che in fondo il Covid 19 colpisce solo gli anziani. Anche perché non è vero"

L'infettivologo Renzo Scaggiante
PADOVA. Emilio aveva 92 anni e forse un giorno il suo nome si perderà tra altri migliaia che saranno rimasti sul campo alla fine di questa lotta impari contro il coronavirus. Tra chi lo ricorderà con la tenerezza di un nipote ci sarà però Renzo Scaggiante, specialista in Malattie Infettive dell’Azienda ospedaliera di Padova che pure, prima di quella buia notte senza ritorno, di quell’anziano signore non aveva mai sentito parlare: «È arrivato in ambulanza alle tre di mattina e quando l’ho visto ho pensato che avrebbe potuto essere mio nonno, che ho amato quasi più dei miei genitori. Emilio aveva difficoltà respiratorie ma non aveva capito il problema, forse non lo aveva considerato. Poi improvvisamente mi ha chiesto “ma dottore non avrò mica il virus, quello letale?”» ricorda Scaggiante mentre la voce si spezza e l’uomo prende il sopravvento sul medico «allora gli ho detto “Non si preoccupi, qualche giorno e la mandiamo a casa”. Gli ho detto una grande bugia. Sono cose che segnano».
Sapeva che non ce l’avrebbe fatta?
«Era in condizioni serie, aveva grosse probabilità di non farcela, ma molti altri ce la fanno, escono dalla Terapia Intensiva. Pensare che tanto il virus colpisce solo gli anziani significa non avere un approccio etico. Tutti noi diventiamo anziani e siamo destinati a soffrire di diverse patologie. Significa forse che le persone più fragili non hanno diritto di essere curate? Direi piuttosto che dovrebbero essere seguite nel modo migliore. Di fronte alla malattia siamo tutti uguali».
Del resto ormai è evidente che il Covid-19 non colpisce solo gli anziani.
«Chiunque abbia studiato un po’ di biologia sa che i virus sono assolutamente democratici e non si fermano davanti a niente: sesso, età o frontiera, si muovono nello stesso modo in qualsiasi villaggio, in qualunque Paese. L’unica differenza è che in alcune zone hanno capito prima che in altre che per evitare il contagio andavano isolate le persone. Quando è scoppiata l’epidemia in Cina in molti hanno reagito come se fosse un problema esclusivamente loro e, sebbene fosse evidente che sarebbe arrivato anche qui, non sono stati adottati i principi di precauzione della medicina fondati sull’evidenza, ma comportamenti basati sull’ignoranza. È stata ascoltata la politica, non la scienza».
Lei era in servizio anche il giorno in cui è stato ricoverato il primo paziente affetto da coronavirus a Padova?
«Quel venerdì ero di turno dalle 9 alle 21. Al pomeriggio ci hanno avvisato da Microbiologia che era stato individuato il primo paziente positivo in Azienda e che ce lo avrebbero mandato a Malattie Infettive. A quel punto l’unica cosa che potevamo fare era spostare tutti i malati che avevamo in reparto, perché sapevamo che i 28 posti letto a nostra disposizione si sarebbero riempiti velocemente con questi nuovi pazienti e che avrebbero avuto bisogno di assistenza e ossigeno. Quella sera sono uscito alle 22 e il mattino successivo, quando ho dato il cambio al collega, c’erano due-tre ambulanze che stavano trasportando altri malati e lo stesso era avvenuto durante la notte».
È stato in quel momento che avete capito che la vita di tutti sarebbe stata stravolta?
«In realtà lo sapevamo da qualche mese. In quello che è successo in Cina c’erano tutte le avvisaglie per l’epidemia se non addirittura per la pandemia. Gli infettivologi sono abituati a vederne, ce ne sono sempre state. Di recente abbiamo avuto la Sars, l’H1N1, la Suina, anche se non sono state così importanti. Le epidemie sono cicliche, sono come i terremoti: sai che prima o poi ne arriverà uno ma non sai quando e dove, né sai dire se la prima scossa sarà la peggiore o se ne verranno di più brutte. I microrganismi solo talmente piccoli che non li vedi e restano nell’ambiente per ore, per cui ogni volta che un medico viene a contatto con un malato deve indossare guanti, sovracamice e mascherina, perché nella fase acuta il coronavirus è molto infettivo».
I pazienti sono spaventati?
«Sono vigili e spaventati e, forse in parte, abbiamo contribuito anche noi un po’. Nell’opinione pubblica, infatti, si fonde tutto. Bisogna stare molto attenti. Un esempio: io sono anche pediatra e appena vedo un bimbo sottoposto a chemioterapia, l’istinto sarebbe di prenderlo in braccio e baciarlo per alleviare il suo dolore, invece bisogna essere ligi, perché non ha difese immunitarie. Con i virus che non conosciamo vale lo stesso principio. Il Veneto in questo senso è stato lungimirante, mettere in quarantena Vo’ è stato utile. Sono provvedimenti che richiedono sacrifici, ma meglio essere noi a fermarci che essere fermati dal virus. Certo, siamo avvantaggiati rispetto al resto d’Europa e alla fine saremo noi a dover difendere le frontiere. Finirà, ma quanti danni avrà fatto in termini di vite umane?».
Com’è la situazione in Azienda ospedaliera?
«La nostra unità operativa aveva 28 posti letto che sono prima raddoppiati e poi triplicati. Sono stati trovati posti a Monselice e in tutto il Veneto ma ci sono altre urgenze che vanno garantite, pazienti con altre patologie hanno necessità di essere ricoverati in Terapia Intensiva, non possono essere destinate tutte al coronavirus, sennò hai un nuovo problema di sanità pubblica».
Da qui i turni estenuanti di cui ormai tutti sanno.
«I medici sono commisurati a 28 posti letto, quindi l’unico modo per coprire i turni è saltare ferie e risposi; invece di smontare dopo 12 ore infili subito un altro turno di 12 e ti ritrovi a dormire 4-5 ore per notte, ma non si può andare avanti così all’infinito. Non basta avere i respiratori per garantire l’assistenza. E questo è dovuto alla “lungimiranza” della politica che negli anni ha solo tagliato e ora raccoglie quello che ha seminato».
Cosa dice la sua famiglia dei rischi che corre al lavoro?
«Per gli operatori sanitari il pericolo di contagio è molto alto e dobbiamo preservare i nostri familiari. Quindi limitiamo i contatti, in casa tengo la mascherina. Mia moglie è medico e capisce, ma anche i ragazzi, che hanno 15 e 11 anni».
I suoi figli sono preoccupati?
«Soprattutto la prima sera, mi hanno fatto diverse domande. Ho cercato di spiegare loro la questione dal punto di vista biologico, cercando di fargli capire che tutto sommato possiamo tenere la situazione sotto controllo. Anche se sono convinto che, soprattutto il più piccolo, all’inizio non abbia dormito così bene. Ma immagino che ci sia più di qualche bimbo in apprensione». —
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