«Ecco dove ho nascosto i beni»

VENEZIA. Si è sempre favoleggiato sul tesoro che Felice Maniero aveva accumulato negli anni in cui era il dominatore assoluto della malavita in Veneto. E c’era la netta percezione che quanto era stato a fatica sequestrato negli anni Novanta fosse solo una minima parte rispetto al tesoro della Mala del Brenta. Fino all’inchiesta che nelle scorse ore ha portato al sequestro di beni per 17 milioni di euro. E’ stato lui a raccontare dove ha nascosto la sua immensa fortuna.
Le origini del tesoro. È un tesoro costruito negli anni quello riconducibile a Felice Maniero. L’ex boss della Mala del Brenta aveva iniziato a fare i soldi con il traffico di eroina, prima con il clan Fidanzati, quindi con i turchi. Poi il traffico di armi con i Paesi dei Balcani, le bische clandestine. E le rapine. Quelle memorabili sono una decina. Colpi clamorosi tra cui la rapina da due miliardi di lire all’aeroporto Marco Polo di Venezia - era il 1980 - con il prelievo di 170 chili di oro. Oppure quella ai danni del Casinò del Lido di Venezia, quattro anni più tardi, dove al posto delle fiches erano state messe sul tavolo da gioco sei pistole. E ancora l’assalto dinamitardo al vagone postale del treno Venezia-Milano a Vigonza nel 1990 dove perse la vita una studentessa universitaria di Conegliano che viaggiava sul convoglio proveniente dal binario opposto. Felice Maniero imponeva il pizzo a chi faceva le rapine e ai “cambisti”, coloro che prestavano soldi ai giocatori incalliti del Casinò. Chi lavorava per “Faccia d’angelo”, insomma, doveva adeguatamente remunerare il boss.
La gestione del patrimonio. Se ne sono dette di ogni sorte su dove Maniero nascondesse il tesoro, c’era chi sosteneva addirittura che lo celasse sotto terra, l’unico posto evidentemente ritenuto sicuro. Di certo si sa che Felice Maniero ha sempre investito, portando i suoi soldi in particolare all’estero. Anni fa era stato anche sequestrato un conto corrente in Austria. A differenza di molti dei suoi colonnelli, che negli anni sono arrivati a dissipare gli averi, Maniero sapeva gestire i suoi beni. E quando lui era dietro le sbarre, a tirare le fila del tesoro ci pensava la madre Lucia Carrain.
Le briciole. Nel 1995, pochi mesi dopo il pentimento, lo Stato prese a Maniero una villa e un appartamento a Campolongo Maggiore (oggi diventati cuore dei progetti sulla legalità), lo yacht Lucy (entrato nella leggenda perché il boss era con la sua compagna a bordo di quella lussuosissima imbarcazione al porto di Capri quando venne arrestato dalla polizia per iniziare la carcerazione che si sarebbe conclusa con la clamorosa fuga dal Due Palazzi; all’imbarcazione, poi, aveva dato il nome della madre), un terreno e due conti correnti per un totale di circa cinque miliardi. Ad alcuni suoi fedelissimi erano stati presi appartamenti, auto, conti correnti, terreni. Nel 2000, proprio perché aveva fatto trovare solo le briciole del suo tesoro, la Commissione nazionale per i pentiti del ministero dell’Interno aveva deciso che Maniero dovesse rimane senza programma di protezione in carcere ad Ancona. Nel 2013, poi, lo Stato era entrato definitivamente in possesso di un’altra piccola parte del patrimonio, ovvero cinque dipinti (un De Chirico, un Renoir, un Boccioni e due opere di autori minori francesi del Settecento), e poco più di 400 mila euro in contanti recuperati dagli investigatori in una cassetta di sicurezza di una banca di Lugano alcuni anni prima.
La sfida ai magistrati. L’ex boss ha sempre sostenuto di aver fornito gli elementi perché la magistratura arrivasse al patrimonio. Eventualmente se i sequestri non erano avvenuti «non è colpa mia ma dell’incapacità dei magistrati», aveva detto il boss. Le indagini dell’allora Criminalpol del Veneto non avevano portato a nulla. Quello del patrimonio mai trovato è sempre stato il cruccio di Antonio Fojadelli, il pm antimafia che per primo raccolse le confessioni del pentito. L’ex Procuratore generale di Venezia, Mario Daniele, disse che “Felicetto” aveva accumulato un patrimonio stimabile in 100 miliardi.
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