Ecco la Provincia del Veneto centrale «Motore a Nordest»
VENEZIA. Troppo innovativa per la vecchia politica. Dai sindaci del territorio parte una proposta rivoluzionaria per il riassetto delle Province disposto dal governo: cinque nuove di zecca, by-passando i vecchi confini, che poi non sono quelli della storia vera ma del diktat napoleonico: l’area montana (il Bellunese e la parte montana veronese, vicentina e trevigiana); l’area del basso Veneto (il Polesine e le basse padovana, vicentina e veronese); l’area del centro veneto (i capoluoghi di Padova, Vicenza, Treviso e la fascia della pedemontana); il quadrante veronese; la città metropolitana di Venezia. La Regione Veneto per contro si rifugia attaccandosi al vecchio: le sei tradizionali dell’entroterra più la Venezia metropolitana (imposta dalla legge). Più che un rifugio, una rinuncia: il Veneto è il solo assieme alla Lombardia a non toccare l’esistente, quindi di fatto a delegare la scelta a Roma, dalla quale a parole rivendica continuamente l’autonomia.
L’idea del nuovo modello organizzativo parte dagli amministratori delle Ipa (le intese programmatiche d’area: si veda il pezzo qui sotto) del Veneto centrale, una realtà che rappresenta 162 Comuni e poco meno di un milione e mezzo di abitanti, cuore produttivo con le sue 100mila imprese, i cui sindaci da cinque anni lavorano alla costruzione di un disegno politico di sviluppo condiviso. Spiega Lorenzo Zanon, sindaco della padovana Trebaseleghe, e presidente della federazione dei Comuni del Camposampierese: «Di fronte allo Stato che ci chiede di riformare il sistema delle Province, possiamo limitarci a dei semplici ritocchi che non creano sconquasso, ma che tengono aperto il problema della loro adeguatezza a rispondere ai bisogni del territorio. Oppure possiamo cogliere l’occasione per una revisione in profondità dell’intero sistema territoriale veneto. Ed è quello che noi abbiamo voluto fare con la nostra ipotesi, sulla quale abbiamo raccolto il vivo interesse non solo degli amministratori locali, ma anche del mondo dell’economia e delle stesse diocesi; le quali ultime tra l’altro sono nate molto prima delle Province, e hanno creato un’omogeneità culturale».
Certo, annota Zanon, il tempo strettissimo posto dalla “spending review” del governo Monti rappresenta un problema, e rende comprensibili dubbi e perplessità. «Ma come amministratori noi abbiamo il dovere di provare a ragionare su prospettive di ampio respiro, mettendo assieme territori omogenei che superino i vecchi confini amministrativi». Su queste premesse è stato elaborato un documento che a partire dai requisiti posti dal governo (dimensione territoriale non inferiore ai 2500 kmq e popolazione residente non inferiore ai 350mila abitanti) suggerisce la nuova suddivisione del Veneto sulla base di criteri geografici, socio-economici, storici-culturali, e anche legati ai flussi di relazioni: giusto per limitarsi a un esempio, un abitante di Cittadella ha molte più relazioni con uno di Bassano o Castelfranco, pur appartenendo a province diverse, che ad uno di Montagnana o Piove di Sacco, pur appartenendo alla stessa provincia.
Il fatto è che uno scenario così innovativo è incappato nel fuoco di sbarramento della vecchia politica, a partire dai vertici del Pdl veneto, che risulta non abbiano affatto gradito; specie perché un assetto di questo tipo rischia di scardinare i tradizionali bacini elettorali di consenso. Zanon non vuole peraltro entrare nella polemica: «Ci sono riserve e perplessità che capisco, ma che non condivido. Noi siamo sindaci dei nostri territori e dobbiamo chiederci: cos’è bene per i cittadini del mio Comune?». Il progetto quindi andrà avanti, con la dovuta gradualità, e cercando il più ampio coinvolgimento. Con l’obiettivo di dare vita a un altro Veneto.
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