ECCO PERCHÈ NON HO FIRMATO
Prendevano la parola a fatica, e a volte gli moriva in gola o nel pianto. Raccontavano pubblicamente, quasi sempre per la prima volta, la ferita, il lutto. Un dolore senza fine. E una solitudine grande, anche. Erano i primi anni Novanta. Le vittime del terrorismo e della criminalità, i loro famigliari, i loro amici, accettavano dapprima con ritrosia e con incredulità l'invito a incontrarsi. Poi, durante, si scioglievano, si commuovevano, infine erano contenti di esserci stati, di essersi mostrati e fatti sentire contro l'oblio in cui erano stati a lungo lasciati. Questi incontri, fra i primissimi in Italia, che avranno poi un ruolo fondamentale nel riaprire la questione del riconoscimento e del risarcimento di queste vittime, erano e sono tuttora promossi dal Comune di Venezia e da esponenti del sindacato di polizia (come Maccari e Coslovi, e tanti loro colleghi) e da Mirko Schio, un poliziotto ferito gravemente con un collega in un agguato a Marghera, da una banda insieme fascista e criminale denominata "Legione Brenno", costretto da allora in carrozzina, fondatore dell'associazione che tutela e rappresenta i colpiti e le loro famiglie (la "Fervicredo"). Ho ripensato a quegli incontri, dolenti e fortissimi, descritti anche nel libro di Mario Calabresi «Spingendo la notte più in là», quando, in questi giorni, ho visto contrapporre inopinatamente il dovere della verità e della giustizia - e la sacrosanta rivendicazione dell'estradizione di Cesare Battisti, le cui vittime o i loro famigliari hanno, naturalmente, partecipato ai nostri convegni - e la libertà di espressione, la libertà degli scrittori e degli artisti di vedersi rispettati indipendentemente dalle opinioni politiche o su questo o quel fatto di cronaca. La libertà di Celine. Di Ezra Pound. Di Solgenitsin. Di Saramago. Di Salman Rushdie. Di Taslima Nasrin. Di Roberto Saviano. Quella di tutti coloro che scrivono. Indipendentemente dal giudizio che si dà sulle loro opere e sulle specifiche opinioni. Questa contrapposizione, evocata non emotivamente, bensì in modo calcolato dall'iniziativa di esponenti delle istituzioni, mi è parsa subito insopportabile. Non ho firmato, a suo tempo, l'appello sul processo a Battisti. Anzi, ho lavorato con e per le vittime sue e di quelli come lui (rossi o neri o criminali comuni che fossero). Ma l'idea di contrapporre opere letterarie e artistiche e bisogno di giustizia è contraria in radice a una civiltà degna di questo nome. In quelle opere è narrato comunque il bene e il male di un'epoca. Esse sono le migliori alleate di tutte le vittime, quali che siano le idee specifiche degli autori, perché in esse, specie nelle più riuscite, passa il soffio del tempo, resta la traccia delle vite e delle storie, soprattutto di chi ha avuto la vita violata e ha subito la Storia, se ne raccolgono i caratteri, le voci, le speranze, le sconfitte. Per restare solo ad alcuni autori oggi a rischio di "messa al bando" (pretesa torva e ridicola): la ferocia che descrive nei suoi romanzi Massimo Carlotto; il rigoglio di lingue e di ritratti che prorompe in Scarpa, nel nesso tra tragico e comico che è la sua cifra di fondo; l'insistente ricerca poetica dentro il nostro tempo di Lello Voce; la nuova epica dei Wu Ming - e potremmo continuare - questo racconto del nostro tempo non può che essere libero e non ne deve minimamente essere contrastata la circolazione. Per questo il Comune di Venezia, il luogo in cui spesso per la prima volta molte delle vittime di tante stagioni crudeli hanno trovato spazio e voce, contro questi rigurgiti regressivi promuoverà nelle prossime settimane un grande incontro internazionale per la libertà dell'arte e della cultura, nel solco della propria tradizione e della propria civiltà. Per dire che indietro non si torna.
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