Il difensore di Zonin all’attacco «La condanna è già stata scritta»
VICENZA
Quando l’avvocato Enrico Ambrosetti, difensore dell’ex presidente della Banca popolare di Vicenza, Gianni Zonin, inizia la sua discussione difensiva le prime parole sono la citazione di una delle arringhe più famose della storia, quella pronunciata dal conte Raymond Desèze davanti alla convenzione repubblicana francese il giorno di santo Stefano del 1792, in difesa di Luigi XVI poi ghigliottinato.
«Non processiamo il Re, lo dobbiamo semplicemente ghigliottinare», ripete l’avvocato Ambrosetti. Perché, in un processo che il legale dell’ex numero di BpVi definisce «un laboratorio del nuovo diritto penale: senza verità, senza legge, e senza colpa», la sentenza, come quella a cui andò incontro il sovrano francese circa tre secoli fa, è già scritta». E l’epilogo, come insiste Ambrosetti, in una discussione accorata, arriverà nell’atmosfera «di odio con cui si è svolto e si svolge questo dibattimento contro una vittima predestinata. Ecco, è finalmente arrivato il momento di fare giustizia con il “g” minuscola». Per Zonin non ci sarà una lama ma gli anni della condanna.
«Ma si può pensare che una vicenda come quella della Banca popolare che ha creato un danno tanto grande sia stata il frutto delle cinque persone oggi a processo?» attacca Ambrosetti cominciando ad analizzare i fatti al centro del procedimento «Molti degli imputati continuano a chiedersi perché si trovano a processo. E il motivo risiede nella “selezione della punibilità” utilizzata dalla procura. Questo processo è nato per concludersi con la condanna. Ma questa non è etica pubblica. La società si attende solo la condanna di Gianni Zonin».
L’avvocato Ambrosetti si rifà poi a un altro parallelismo giudiziario storico: «Siamo passati dal bacio di Riina (quello che l’ex Capo dei capi della mafia avrebbe dato ad Andreotti, ndr) alle cene di Loison», quelle in cui si sarebbe parlato delle baciate davanti a vino e cacciagione; circostanze che non sono mai state però confermate da nessuno dei testi sfilati nelle oltre cento udienze del dibattimento. Poi l’arringa entra ancora più nello specifico andando a sondare il ruolo di Zonin in banca e nel Consiglio di amministrazione ricordando che l’ex presidente non si è mai disfatto delle sue azioni. Che ha sempre investito nella banca, anche nel 2016. «E lo ha fatto perché ha sempre creduto nella Popolare, sino alla fine», appunta Ambrosetti. Per il quale «il vero padre padrone della banca, dal 2012, da quando andò via Divo Gronchi, è stato Samuele Sorato. Il direttore generale era assolutamente indipendente». —
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