Il “Grande passo” di Padovan per il cinema. «Esco nelle sale in estate, bisogna ripartire»
Arriva il 20 agosto il film del regista di Vittorio Veneto con Battiston e Fresi, premiati a Torino come migliori attori

VITTORIO VENETO.
Come disse Neil Armstrong atterrando sulla luna: «È un piccolo passo per un uomo, un gigantesco balzo per l’umanità».
Il nuovo film del regista di Vittorio Veneto Antonio Padovan si intitola “Il grande passo”. Certo, c’entra la luna ma il titolo è, forse, anche un segno del destino. Perché è davvero grande e coraggioso il passo di uscire in sala il 20 agosto, dopo il lungo periodo di lockdown e in una data estiva da sempre ostica per le distribuzioni.
«Quando ho girato il film» racconta il regista «non mi sarei mai immaginato che il cinema si sarebbe fermato per così tanto tempo. Dopo l’anteprima al Festival di Torino, dove i protagonisti del film Giuseppe Battiston e Stefano Fresi sono stati premiati come migliori attori, saremmo dovuti uscire il 2 aprile. Adesso mi sento addosso una responsabilità che non mi aspettavo. Sono molto riconoscente a Betta Olmi, la figlia di Ermanno che ha prodotto il film insieme a Ipotesi Cinema, e alla distribuzione che hanno deciso di rischiare e di uscire ugualmente, rinunciando anche alle proposte di debuttare direttamente in streaming. Per me, che ho scritto questo film immaginandolo per la sala, è un bellissimo regalo».
Un romantico
Una scelta che fa onore a un piccolo film che ha deciso di tenere duro e di non defilarsi. «In effetti molti distributori pensano che la gente non vada al cinema per paura, però è anche vero che se mancano i film da programmare si genera un circolo vizioso. Da questo punto di vista» ammette Padovan «sono un romantico. Ho grande affetto per la sala e spero sopravviva. Poi il cinema viene dato ciclicamente per spacciato: dalla tv, dal 3D, da internet. Ma alla fine si salva sempre. Finirà anche questa emergenza e il pubblico avrà ancora più voglia di tornare al cinema».
“Il grande passo” scandaglia quella sottile linea di confine tra il sogno (quello di Giuseppe Battiston di andare sulla luna) e una folle ossessione, così come viene percepita dagli altri, inizialmente anche da un fratello (Fresi) che arriva da Roma nel Polesine e che non ha mai veramente conosciuto quel suo pezzo di famiglia che in paese chiamano “il luna storta” e mangia solo uova sode.
«C’è stato un periodo in cui anche io ho messo davanti a tutto il mio sogno di diventare regista. Ho vissuto 12 anni in America dove la filosofia del sogno è uno stile di vita. Mi interessava raccontare questa storia immergendola in un contesto italiano, o comunque, più europeo, ricco di sfumature e di legami affettivi, per arrivare alla consapevolezza che i sogni si realizzano solo se vengono condivisi».
Tutto in una notte
Stefano Fresi e Giuseppe Battiston, pur nella loro somigliante corpulenza, non potrebbero essere fratelli più diversi, un po’ come il sole e la luna appunto; eppure hanno una alchimia quasi commovente.
«Ho scritto il film insieme a Marco Pettenello pensando esclusivamente a loro» confessa Padovan. «Poi sono andato a dormire da Beppe, con cui avevo già lavorato in “Finché c’è prosecco c’è speranza”, e in una notte l’ho convito. Con Stefano sono uscito a cena e ho scoperto che sognava di fare un film con Battiston. Credo che la magia del loro rapporto sullo schermo nasca anche dal fatto che durante la lavorazione hanno convissuto, da soli, in un agriturismo nel Polesine: o si ammazzavano o diventavano amici. Si è avverata, per fortuna, la seconda».

Proprio l’ambientazione, come per il primo film lo erano state le colline del prosecco, ha un ruolo centrale. Persino la nebbia di quei luoghi assume un significato diverso. «Prima di girare avevo conosciuto e amato quei luoghi dai film di Carlo Mazzacurati tanto che ho voluto omaggiare nelle sequenze sugli argini, così come avevo fatto nel film precedente inquadrando Treviso alla Pietro Germi di “Signore e signori”. Come Mazzacurati provava affetto per le debolezze degli uomini, anche la nebbia, intesa come debolezza di quel territorio, diventa nel film un vero e proprio propulsore, letteralmente. E non manca un tocco di ambientalismo, che mi scappa sempre».
Crespino, Villanova Marchesana, Canaro, Polesella, Rosolina sono alcuni dei luoghi che compongono, come in un collage, il fantomatico paesino di “Quattrotronchi”.
Ora che Antonio Padovan ha fotografato le colline del trevigiano e la pianura padana, manca solo la montagna. «Sarebbe un’idea. Mi piacerebbe girare un film in montagna per chiudere una sorta di trilogia veneta».
E il Veneto non è solo il centro di gravità di questo film: anche gli altri interpreti e il cast tecnico sono la celebrazione delle eccellenze artistiche della regione.
Eccellenze venete
Da Roberto Citran a Valerio Mazzucato; da Vitaliano Trevisan e Mirko Artuso. E poi il montatore Paolo Cottignola (veneto di adozione avendo lavorato per anni con Olmi e Mazzacurati) e il costumista Andrea Cavalletto. Fino al grande Pino Donaggio. «Volevo assolutamente che fosse lui a comporre le musiche del film, un po’ alla John Williams. Però in tutta la sua carriera non aveva mai registrato con l’orchestra le musiche di un film in Italia. Per la prima volta e grazie alla Film Commission siamo riusciti a registrare con una orchestra sinfonica composta da 50 musicisti tutti veneti a Treviso, al Teatro delle Voci. Anche Donaggio è rimasto stupito da questa eccellenza nascosta, un gioiellino fuori da tutti i radar del cinema italiano, nascosto a Treviso». La terra del prosecco. E, come direbbe Padovan, “Finché c’è prosecco c’è speranza”. Il cinema ne ha immensamente bisogno. —
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