La ricerca padovana dell'immunologa Viola: «Covid, più rischio già dai 60 anni»

Lo studio dell’immunologa con Cattelan: «È un’età spartiacque in cui si modifica la risposta immunitaria al virus»
ZANETTI -AGENZIA BIANCHI-PADOVA - ASSEMBLEA COSI TORRE DELLA RICERCA
ZANETTI -AGENZIA BIANCHI-PADOVA - ASSEMBLEA COSI TORRE DELLA RICERCA
PADOVA. Che le persone anziane corressero un rischio significativamente più elevato dei giovani di sviluppare una forma grave di Covid, gli scienziati lo avevano capito in tempi rapidi. Tuttavia questo recinto è rimasto a lungo da riempire con elementi scientifici: a fornire alcune risposte ci ha pensato lo studio realizzato da Antonella Viola, immunologa nonché direttore scientifico dell’Istituto di ricerca pediatrica Città della Speranza assieme ad Annamaria Cattelan, direttore del neo costituito dipartimento Immunologico dell’Azienda ospedaliera. 
 
Progetti 
 
L’indagine, realizzata su una quarantina di pazienti ricoverati a Malattie Infettive durante la pandemia, ha permesso di fissare una linea di confine importante e finora inesplorata: «Assieme alla dottoressa Cattelan abbiano analizzato lo stato immunologico dei pazienti già ricoverati per capire quale fosse la situazione in cui si verificava il rischio maggiore di sviluppare una malattia grave» spiega la professoressa Viola «abbiamo notato che si distinguono chiaramente i pazienti giovani da quelli anziani, con una linea di demarcazione chiara tra over e under 60».
 
Il progetto sulla caratterizzazione della risposta immunitaria dei pazienti ricoverati a Padova è stato finanziato dalla Fondazione Città della Speranza con 500.000 euro. Una parte dello studio è già stata inviata alla comunità scientifica per la valutazione. «Lo studio» prosegue Viola «ci ha confermato che il fattore di rischio è legato all’età: si crea un confine il cui il sistema immunitario agisce in modo significativamente diverso creando, di fatto, due categorie. Ora dobbiamo capire quali molecole e per quale motivo si attivano in modo protettivo e quali ampliano i danni. Un’ipotesi potrebbe essere nella risposta negativa scatenata da una condizione infiammatoria».
 
E proprio in questa direzione si sviluppa anche il secondo studio di cui si sta occupando Viola, finanziato questa volta dalla Fondazione Cariparo: «Stiamo indagando la condizione molecolare per capire se uno stato infiammatorio, come sembra, facilita la malattia» prosegue «dopodiché dovremo capire come questo avviene». 
 
tamponi e test
 
Stabilito che sopra i 60 anni le condizioni di rischio aumentano – «ma ci sono anche giovani che si ammalano in maniera grave, e questa è una delle grandi domande per cui la comunità scientifica sta cercando una risposta» precisa Viola –, ora l’attenzione sembra destinata a spostarsi sulle scuole, con la necessità di garantire diagnosi immediate sia per i ragazzi che per gli insegnanti. «L’idea di sottoporre gli insegnanti al test sierologico non mi è piaciuto molto» spiega l’immunologa «è stata un’operazione che non aveva gran valore diagnostico, semmai è stata utile dal punto di vista epidemiologico perché ha consentito di fotografare la situazione scolastica. Di certo non è servita a garantire il ritorno sui banchi in sicurezza». 
 
L’unica possibilità per un rientro il meno traumatico possibile, secondo Viola, è affidarsi ai test rapidi: «Si tratta di test sulla saliva che si fanno con estrema facilità consentendo di vedere se il virus è veramente presente» prosegue «è un po’ meno sensibile del tampone, ma almeno permette di individuare i casi con carica virale altissima. Anche se si perde qualcuno con una carica virale bassa, sarà comunque possibile entrare in possesso di uno screening amplissimo tenendo sotto controllo l’andamento del contagio. E questo farà davvero la
differenza nei mesi a venire». 
 
screening
 
Il test rapido, sostiene l’immunologa, potrebbe servire sia per tutelare il personale docente, che nei casi sospetti tra gli studenti, evitando di bloccare classi e famiglie: «I professori potrebbero essere sottoposti a test rapido anche una volta alla settimana» ipotizza il direttore scientifico dell’Istituto di ricerca pediatrica «ma lo stesso tipo di test potrebbe essere utilizzato sui ragazzi: in questo caso sarebbe sufficiente portare lo studente con la febbre in un’aula separata e sottoporlo al test rapido, in attesa dell’arrivo dei genitori visto che, va da sé, un ragazzino con la febbre va comunque portato a casa, anche se non è affetto da Covid. In caso di positività al test si potrebbe poi sottoporre lo studente a tampone per una conferma, ma intanto si garantirebbe la possibilità di continuare a lavorare in classe, senza mandare a casa tutti gli studenti e bloccare a caduta anche intere famiglie altrimenti costrette alla quarantena». 
 
Il tampone come strumento di diagnosi, secondo Viola, infatti, non è una strada percorribile per garantire risposte efficienti per il ritorno sui banchi: «Chi pensa di affidarsi ai tamponi non ha ma visto un bambino» conclude «il problema grosso, verosimilmente, non si ripresenterà subito, ma con il ritorno della stagione dei raffreddori e dell’influenza. A quel punto non sarà possibile sottoporre tutti i casi sospetti a tampone e avere risposte in tempi rapidi, sicuramente non nell’arco delle ventiquattro ore: lì si genererà un collo di bottiglia pazzesco che si può ovviare solo ricorrendo ai test rapidi». — 
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