La verità sul crack della Fondazione Breda, spolpata senza alcun colpevole

PADOVA-TREVISO. E pensare che poco prima di morire, il 4 gennaio 1903, all’età di 78 anni, Vincenzo Stefano Breda, uno dei maggiori imprenditori italiani della seconda metà dell’Ottocento. aveva redatto un testamento olografo, con il quale, non avendo eredi diretti, lasciava quasi tutto il suo ingente patrimonio alla comunità padovana, attraverso un’apposita Fondazione volta a finanziare due realizzazioni, intitolate alla madre e alla moglie: un asilo d’infanzia e un ospizio per i vecchi.
Esemplare la motivazione del gesto: “Avendo la mia esperienza dimostrato come le fortune create con l’onesto lavoro vadano spesso disperse, o per vizi o per l’imbecillità degli eredi, io ho pensato di lasciare molta parte delle mie sostanze a un Ente Morale”. Per sua espressa volontà, tale ente avrebbe dovuto essere amministrato da tre “curatori pro tempore”, designati dal Comune di Padova.
Un anno dopo, il 2 febbraio 1905, un regio decreto sanciva la nascita della Fondazione Breda, che iniziava così la propria benemerita attività, diventando un punto di riferimento per la città. Ma un secolo dopo, quel patrimonio è stato letteralmente distrutto a causa di un’amministrazione scellerata, che ha accumulato un debito tale da condurre alla messa in liquidazione dell’ente, tradendo così nel più vergognoso dei modi l’intento del suo fondatore. La prescrizione che ora salva il principale degli accusati, Michelangelo Cibin, chiude nel peggiore ed amaro dei modi una vicenda che colpisce l’intera città.
Le turbolenze alla Pia Fondazione Breda iniziano nel cambio di millennio. Se fino ad allora, in poco meno di un secolo, l’ente ha avuto solo 13 presidenti, negli anni successivi il quadro cambia a ripetizione. Si comincia con due commissari di fila designati dal Comune di Padova; è uno di loro, Luigi Barbieri, a segnalare alla magistratura cosa sta accadendo in Fondazione.
Da novembre 2001 si torna alla prassi ordinaria, con un presidente, affiancato da quattro curatori. Il cda rimane in carica fino al febbraio 2006. Ed è in quest’arco temporale di cinque anni che esplode il caso in tutta la sua portata. All’alba del 27 marzo 2008 la Guardia di Finanza arresta tre persone strettamente legate alla Fondazione Breda: l’ex direttore Michelangelo Cibin, l’ex consigliere di amministrazione con delega agli appalti Sergio Scalisi, e l’imprenditore Federico Caporello, titolare della gastronomia Salvò a Saccolongo.
Le accuse loro contestate, a vario titolo e in concorso, sono di truffa ai danni dello Stato, corruzione, turbativa d’asta, falso ideologico e materiale, truffa. Nel periodo compreso tra il 2002 e il 2005, i tre sono imputati di aver utilizzato circa 10 milioni di euro di patrimonio della Fondazione, svendendo a proprio favore attraverso una società di comodo, o permutando in perdita, terreni a Limena, nel Padovano, di proprietà della Casa di riposo. L’inchiesta coinvolge altre sei persone, denunciate a piede libero.
In concomitanza con gli arresti, la Finanza pone sotto sequestro le abitazioni e le aziende degli imputati. Dopo averle perquisite, sequestra complessivamente oltre 5 milioni di euro in beni, azioni e contanti, due Mercedes, una Saab, un’imbarcazione e due moto Harley Davidson.
Secondo le accuse mosse dalla procura, con le operazioni di compravendita i protagonisti della vicenda avrebbero provocato il prosciugamento totale dell’ingente patrimonio della Fondazione. Si parla di un buco di 20 milioni di euro. Che viene da lontano.
In primo grado, il tribunale infligge severe condanne alle persone giudicate responsabili: in tutto, oltre 14 anni di carcere. Il danno è comunque irreparabile: il 3 luglio successivo, la Regione Veneto pone in liquidazione la Fondazione stessa, a causa dello “stato irreversibile di insolvenza”. La sentenza viene peraltro abbondantemente mitigata in appello.

L’unico a rimanerne fuori è proprio l’ex direttore Cibin, per il quale durante l’intero procedimento erano stati invocati motivi di salute: secondo la procura, era proprio lui il regista delle operazioni che hanno condotto la Fondazione al crack finale. Ora la prescrizione lo salva.
Non può cadere in prescrizione la vergogna di fondo: come non di rado in Italia, il danno c’è stato, e di enorme portata. Ma nessuno ne risulta colpevole. E a pagare è Padova, cui Vincenzo Stefano Breda aveva voluto dedicare due opere sociali di altissimo valore: distrutte dalla “auri sacra fames” di chi le ha piegate ai propri squallidi interessi privati.
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La scheda. Vincenzo Stefano Breda nasce nel 1825 a Limena, in una famiglia di piccoli commercianti. Dopo un periodo di dipendente di un’azienda che opera nelle costruzioni ferroviarie, nel 1854 si mette in proprio avviando la Società per le strade ferrate dell’Italia centrale. Nel 1872 dà vita a Padova alla Società veneta per le imprese e costruzioni pubbliche. Nel 1881 acquisisce il pacchetto di maggioranza della Società altiforni e acciaierie di Terni. Nel neonato Stato unitario si dedica anche alla carriera politica, venendo eletto cinque volte deputato e poi senatore. Appassionato di ippica, crea nella sua Padova l’ippodromo a lui intitolato. Muore nel 1903.
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